Quelli come Soumaila – editoriale Africa n°4-2018

di AFRICA

di Pier Maria Mazzola

In questo 2018 denso di ricorrenze, c’è anche un giubileo letterario. Il 1° settembre 1968 usciva a Parigi il romanzo di uno scrittore maliano, Yambo Ouologuem, subito coronato con uno dei più prestigiosi premi francesi. Dovere di violenza, tradotto in italiano nel 1970 (oggi introvabile; in Francia è appena stato riedito), introdusse una cesura nello sguardo sulla storia africana.

Fino ai primi anni Sessanta, freschi di indipendenze, i letterati avevano cantato un’Africa precoloniale immersa nell’età dell’oro – brutalmente dissolta dall’irruzione europea. I nuovi governanti cominciarono presto a deludere, ma gli scrittori rimasero afoni. Con poche eccezioni, per esempio Ahmadou Kourouma e Wole Soyinka. Ouologuem “spaccò” perché prese partito in forma cruda, irrispettosa, sardonica, mettendo in scena un immaginario regno saheliano dal XIII secolo fino al secondo dopoguerra, in un crescendo di strapotere, crudeltà, violenze, scelte paradossali (e perdenti) di fronte all’invasione coloniale. «I resistenti neri fanno razzie di prigionieri neri e pagano con questa moneta i mercanti in cambio di cavalli, polvere da sparo, armi, aumentando così a orde le colonne interminabili di schiavi, mentre i bianchi, dal canto loro, guadagnano terreno».

Ouologuem si vide obbligato a difendersi: «Può sembrare sospetto che un nero si opponga ai neri, ma la mia intenzione è tutt’altra. Io credo che i neri siano fin qui vissuti da schiavi in quanto si sono sempre definiti non in rapporto a sé stessi ma anzitutto in rapporto al bianco. Di qui, il razzismo alla rovescia, certe ideologie sospette… Non esiste, a propriamente parlare, un “problema nero”, ma solo dei problemi umani».

Mezzo secolo è passato, molto è cambiato. Ma non è un caso che Alain Mabanckou, lo scrittore congolese emblema di un’africanità contemporanea senza complessi, abbia ripreso il discorso. In un libriccino di qualche anno fa (inedito in Italia), con garbo ed energia richiama i suoi fratelli a non cercare alibi “francesi” alle proprie responsabilità. Perché davvero – traduciamo noi – sono problemi «umani», non «neri», i giuramenti vodu che legano le ragazze nigeriane deportate in Europa (ed era gran tempo che l’Oba Ewuare II li revocasse e proibisse). Come pure lo sono le realtà della nuova tratta transahariana o del caporalato nel Mezzogiorno, che funzionano anche grazie ai kapò connazionali. Oppure la xenofobia dal basso e/o dall’alto che periodicamente si riversa su immigrati venuti dal medesimo continente, come è accaduto in Nigeria, Sudafrica, Costa d’Avorio…

E poi ci sono gli altri, tanti, che si battono per la propria gente (e dunque anche per noi). Di alcuni conosciamo i nomi: Isoke Aikpitanyi e Blessing Okoedion, che hanno rotto il silenzio sulla tratta sessuale; don Mussie Zerai, il Mosè dei candidati naufraghi nel Mediterraneo; Pape Diaw, il leader senegalese di Firenze che ha nobilitato la protesta per l’uccisione di Idy Diene; Yvan Sagnet, che del caporalato ha fatto una questione nazionale. Dal 2 giugno si è aggiunto, tragicamente, un altro nome: Soumaila Sacko (nella foto), bracciate e sindacalista, ucciso nella Piana di Gioia Tauro. Mentre non hanno invece rotto il silenzio altri che avevano il dovere di parola: quelli che dicono «ora lo Stato siamo noi».

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