Natale in terra Vudù

di Enrico Casale
Natale vudù


di Marco Aime

Porto Novo, piccola capitale del Benin, è un scheggia africana impegnata di misticismo e di spiritualità. In questa tranquilla cittadina affacciata sul golfo di Guinea convivono pacificamente cattolici, musulmani, animisti vudù e devoti di sette cristiane. Qui le diverse fedi religiose si incrociano e si contaminano vicendevolmente nel segno della tolleranza, dando vita ad un stravagante mosaico di preghiere e invocazioni che raggiunge il massimo splendore quando arriva Natale.

Trascorrere il 25 dicembre a Porto Novo significa partecipare a cerimonie religiose simili e profondamente differenti in un contesto di imprevedibili sincretismi. Certo Natale è una festa cristiana, ma coincide anche con solenni celebrazioni vudù. Inoltre i fedeli di una importante setta evangelica africana, la Chiesa Celestiale di Cristo, si ritrovano in questa località proprio nel periodo natalizio, per un pellegrinaggio che raduna migliaia di persone provenienti da ogni parte dell’Africa occidentale. Al visitatore occidentale non resta che godersi questo impressionante spettacolo di fede.

Boom di chiese
Uno spettacolo che, a ben guardare, si rinnova ogni giorno dell’anno. Oggi infatti in Benin è tutto un pullulare di sette religiose. Banditi sotto la dittatura marxista-leninista di Kerekou, prima della sua conversione religiosa e democratica, decine di movimenti religiosi sembrano essersi dischiusi da una lunga incubazione forzata e ora ostentano le loro promesse di salvezza. Alcune sette americane, particolarmente fondamentaliste, si sono messe alla ricerca di oggetti utilizzati nelle pratiche vudù. Li acquistano per alcune decine di dollari, per poi distruggerli. Una pratica che ricorda quella dei primi missionari cristiani dell’Ottocento, e che come allora ignora la stupefacente forza delle religioni tradizionali africane. Oppresse, schiacciate, cacciate, negate da più di un secolo, sono ancora vive, hanno mantenute vive le loro braci sotto la cenere per riemergere quando meno ce lo si attende.

Statuette viventi
Quello che le sette non hanno compreso è che per celebrare un culto tradizionale, non serve quella statuetta, ma un oggetto qualunque. Per cui molti vendono gli oggetti «incriminati» e continuano tranquillamente a praticare il loro culto con altri oggetti, nuovi. L’anima divina è presente ovunque e il dio è un dio fatto di materia. Una materia che diventa viva, che pensa, che agisce muovendo forze che gli uomini non possono controllare. Materia che la nostra scienza indaga e che anche per noi produce forze, ma senz’anima. È solo forza, energia, non divinità. Ma un sistema simbolico ha bisogno di oggetti, perché rendono materiale il dio. Talmente materiale che le statue delle divinità o i suoi simulacri, veri e propri ricettacoli dell’essenza di ciò che rappresentano, devono essere nutriti. A loro si portano offerte di cibo e bevande, perché rappresentano allusivamente l’immagine del corpo umano. Questi oggetti non si limitano a rappresentare una relazione tra ciò che sono e ciò che rappresentano, la creano.
La materia pura è però difficile da immaginare, «cattiva da pensare», si potrebbe dire parafrasando Lévi-Strauss. Occorre allora darle una forma di vita, un’intelligenza. Ecco cos’è l’animismo.

Bibbia e vudù
Il sud del Benin è la culla del vudù, qui tutto è vudù, si pensa in vudù. «Anche il vescovo ha un suo guaritore di fiducia – mi dice Gabin, storico di Abomey e lui stesso iniziato al culto tradizionale – È lui che visita le ragazze del collegio. Il guaritore, per rispetto, viene senza mai farsi vedere. Cura e se ne va». Io stesso ho conosciuto persone che si proclamavano cattoliche, altre musulmane, tutti buoni praticanti, che nei momenti di difficoltà si rivolgevano però ai sacerdoti tradizionali, facendo sacrifici animali, rispettando la ritualità degli antenati. Céline Daganà, una donna di etnia tangba, ha frequentato la scuola cattolica e per tutta la vita è stata una fervente osservante, trasmettendo la sua religione anche ai figli, che portano nomi cristiani. Alla sua morte sono stati celebrati due funerali: il primo nella chiesa di Natitingou, secondo il rito cattolico, poi alcuni parenti venuti dal suo villaggio di origine, hanno raccolto in una calebasse alcuni suoi oggetti personali, li hanno riportati al villaggio e, dopo aver celebrato i riti tradizionali li hanno seppelliti, come fosse il vero corpo della defunta. Solo il nostro occhio vede una contraddizione in questo bilanciarsi tra diverse religioni di molti africani. La prospettiva dei monoteismi è ristretta ed esclusiva, non ammette l’altro, se non come concorrente. I politeismi presentano un maggior grado di adattabilità, possono inglobare diverse istanze senza per questo perdere la loro identità che multipla per natura.

Strani calendari
Dopo avermi fatto visitare il piccolo museo sul vudù da lui allestito, Gabin va a prendere una tavoletta di legno. Ci sono dei fori, dei segni incisi, una striscia di stoffa con sopra cuciti degli oggetti. «È un calendario» dice tenendolo tra le sue mani con delicatezza, come fosse di cristallo. Le dodici lune, incise leggermente e quasi nascoste dalla patina scura del legno, indicano i mesi. Sotto, sempre sul lato destro, sette punti appena accennati segnano la settimana araba. Sul lato opposto, nell’angolo in basso a sinistra, quattro cerchietti: «Sono i quattro mercati che formano la settimana locale. Questi fori qui in alto, invece, sono i 31 giorni del mese» dice Gabin muovendo un piccolo piolo di legno da un buco all’altro. La striscia di stoffa che attraversa la tavoletta in verticale ha nove piccoli oggetti cuciti in fila: «E’ la settimana vudù, ecco questo è Medjo e indica la nascita; questo è Mekou, la morte; Vudùn, lo spirito; Azon, la malattia; Vo, il sacrificio; Hwe, il percorso; Bo, l’amuleto; Hen, decadenza; Fa, la divinazione, la risoluzione». Quante concezioni del tempo ci sono in quella tavoletta? Ecco la prova materiale della traducibilità delle culture, che, semplicemente, rispondono diversamente a problemi comuni.

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