Lo Zimbabwe ritira lo zimdollar

di Enrico Casale

zimdollarDa oggi e fino a settembre sarà possibile cambiare in banca o negli uffici postali i dollari dello Zimbabwe, valuta divenuta simbolo dell’inflazione stellare e delle difficoltà economiche del decennio scorso. La decisione è stata annunciata la settimana scorsa dal governatore della Banca centrale di Harare, John Mangudya. Una decisione che non avrà effetti sull’economia zimbabwiana, che ormai da anni impiega per le transazioni il dollaro americano, il rand sudafricano e altre valute straniere (autorizzate nel 2009 per lasciarsi alle spalle l’iper-inflazione). Con lo zimdollar viene però meno anche un pezzo della sovranità e dell’indipendenza zimbabwiana. Quella sovranità e quella indipendenza per le quali molti cittadini hanno combattuto negli anni Sessanta e Settanta una lunga e sanguinosa guerra civile.

La soppressione della valuta è solo l’ultimo capitolo di una storia triste. Lo Zimbabwe veniva chiamato la «Svizzera dell’Africa». Il Paese rappresentava infatti un’eccezione nel disastrato panorama delle economie continentali. Harare non solo era in grado di sfamare la propria popolazione, ma aveva un settore agricolo che si permetteva di esportare derrate alimentari in tutta l’area meridionale. Un piccolo miracolo che si fondava su una profonda ingiustizia. La fine del regime segregazionista della Rhodesia e la nascita dello Zimbabwe (1979-1980) aveva lasciato irrisolto il problema della redistribuzione delle terre. L’intesa tra il governo dell’allora Salisbury e i movimenti ribelli, con la mediazione della Gran Bretagna, aveva favorito il passaggio del potere politico ai neri, ma aveva lasciato un sostanziale dominio della minoranza bianca di origine anglosassone nella gestione economica. La proprietà terriera non era stata toccata, i farmer bianchi continuavano, come in passato, a coltivare le terre che avevano acquisito nel periodo coloniale. La maggioranza dei neri invece rimaneva costretta al ruolo di bracciante.

Un’ingiustizia tollerata, se non favorita, dal Governo di Robert Mugabe, che riceveva  in cambio il sostegno dei bianchi alle sue politiche. Questa situazione è durata fino agli inizi degli anni Duemila quando i bianchi hanno iniziato a osteggiare le sempre più farneticanti decisioni di Mugabe. E quest’ultimo li ha ripagati con una riforma agraria che non solo non ha redistribuito le terre ai poveri, ma ha distrutto la ricchezza esistente. Le grandi farm sono state infatti assegnate ai fedelissimi del regime, che però si sono dimostrati incapaci di gestirle. Con la produzione agricola è crollata anche la piccola industria di trasformazione ad essa collegata. La valuta nazionale, il dollaro zimbabwiano, ha iniziato a perdere rapidamente valore. L’inflazione ha toccato punte vertiginose con tassi di crescita dei prezzi arrivati ai 500 miliardi per cento del 2008. Tanto è vero che, pur rimanendo in circolazione lo zimdollar, il Governo nel 2009 ha autorizzato le transazioni in dollari o in rand.

Tale svolta ha assicurato un salutare arresto della lunga spirale inflattiva che aveva polverizzato il potere di acquisto dei salari. Oggi infatti l’economia ha ripreso lentamente a crescere, anche perché il Governo sta rivedendo le sue decisioni in campo agricolo. Lo zimdollar rimaneva un ricordo del passato. Un ricordo che ora va definitivamente in soffitta.

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