Kenya: l’ospedale modello di North Kinangop

di AFRICA
Kenya: l'ospedale modello di North Kinangop

A North Kinangop ci si prende cura di migliaia di malati, fornendo assistenza sanitaria all’avanguardia e vincendo la sfida della sostenibilità economica

All’ospedale di North Kinangop (Kenya), la parola d’ordine è “sostenibilità”. La struttura sanitaria deve potersi mantenere da sola, senza aiuti esterni. E, da anni ormai, ci riesce. Come? Affiancando, alle cure mediche, l’allevamento, l’attività artigianale, autotrasporti, ecc.

Un sacerdote intraprendente

Quella di North Kinangop è una storia africana ispirata da una sana intraprendenza italiana. È il 1965 quando, in questa zona a 130 chilometri da Nairobi, in piena terra kikuyu, la diocesi di Nyeri acquista un terreno e vi costruisce un dispensario. È una struttura piccola, ma si rivela subito un punto di riferimento molto importante. Tanto che il vescovo decide di inviare sul posto un dinamico missionario italiano della diocesi di Padova, don Giovanni Della Longa. Il suo compito è gestire al meglio la struttura, ampliandola e costruendole un futuro. Don Giovanni intuisce che, per sviluppare il dispensario senza pesare sulle casse diocesane, deve creare un sistema che affianchi iniziative economiche a quelle sanitarie. Guardandosi intorno, capisce di essere in una zona potenzialmente ricchissima.

L’altopiano sorge a 2500 metri di altezza e il terreno, grazie alle condizioni climatiche favorevoli, è molto fertile. Decide così di avviare una serie di attività agricole e di allevamento nei dintorni dell’ospedale: ortaggi, carne e latte. Ma non basta. Don Giovanni dà vita anche a un progetto di silvicoltura. Pianta alberi il cui legno sarà utilizzato per costruire abitazioni, per il riscaldamento e la cucina. L’ospedale ha così cibo a sufficienza per i pazienti e il personale: diventa energeticamente autonomo.

Economia ed ecologia

L’attività sanitaria intanto cresce. I posti letto salgono a 220. Parallelamente aumenta il personale, che arriva a 200 unità tra medici, infermieri, tecnici di laboratorio, personale amministrativo. Grazie alle apparecchiature e ai medici volontari venuti dall’Italia, le prestazioni ambulatoriali passano da 30 a 70.000 e interessano quasi 80.000 pazienti, che vengono anche da molto lontano.

Nel 2004, don Giovanni muore. La sua opera rischia di finire nel nulla. Prende il suo posto un altro missionario padovano molto intraprendente, don Sandro Borsa. «Devo dire che quando ho preso in mano il timone – dice oggi don Sandro – ho trovato già un’idea e una struttura molto valide. Da parte mia non ho fatto che sviluppare il modello esistente e dare il mio apporto in termini di organizzazione e miglioramento del servizio volontari italiano e internazionale». Oggi l’ospedale potrebbe essere un modello di economia circolare. All’agricoltura e all’allevamento si affiancano il riciclo dei rifiuti organici, un sistema di trattamento delle acque nere, laboratori e attività artigianali (falegnameria, carpenteria metallica, panificio, trasporti a mezzo camion, frantoio per ghiaia e fattoria).

Azienda sana

L’ospedale è così diventato un’azienda con un bilancio di quattro milioni di euro l’anno, dove le voci di entrata sono sostanzialmente due: da un lato, il pagamento delle prestazioni da parte dei pazienti (in linea con il costo della vita locale) e la convenzione assicurativa con il governo; dall’altro, le cattività della campagna, zootecniche e artigianali. Pur essendo un’attività di carità, solo il 10 per cento proviene da donazioni. La gestione ordinaria è coperta dalla suddetta convenzione assicurativa, quella straordinaria dai profitti delle attività economiche. Il risultato è la completa autonomia.

Oggi, l’ospedale si prepara al grande salto: il passaggio della gestione dai missionari e volontari stranieri alla popolazione locale. «Qui non siamo proprietari – conclude don Sandro – bensì coadiutori nel creare una struttura di servizio, che dovrà proseguire e mantenersi con regole e metodi locali. Sono dovuto “diminuire” io affinché crescano loro. Qualche difficoltà c’è, ma i risultati direi che sono ottimi».

(Enrico Casale – foto di Andrea Signori)

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