Giovanni Pross | Congo balcanizzato? No grazie

di Pier Maria Mazzola

Fine 2019 e inizio 2020. Due dichiarazioni di leader cristiani della Repubblica democratica del Congo risaltano sulle prime pagine della stampa e occupano anche uno spazio televisivo (Congo Live TV).

Le Chiese chiedono chiarezza

Il primo intervento è del vescovo Pascal Mukuna (a destra nel fotomontaggio; è il  legale rappresentante della comunità Assemblea cristiana di Kinshasa – Ack – e, nello stesso tempo, presidente nazionale dell’Associazione mondiale delle Chiese cristiane – Amec –, vescovo di una delle tante Chiese evangeliche presenti in Africa). Convocando a Kinshasa Una giornata di risveglio delle coscienze, il 28 dicembre 2019, ha disegnato un quadro oscuro del Paese sia sul piano politico sia sul piano amministrativo.

La prima critica è rivolta all’accordo della coalizione tra la piattaforma politica legata all’ex presidente Joseph Kabila, il Fronte comune per il Congo (Fcc), e l’autorità attuale dello Stato, rappresentata da Étienne Tshisekedi, della Coalizione per il cambiamento (Cach).

Il vescovo chiede ai capi religiosi delle diverse Chiese cristiane di far pressione perché sia reso pubblico questo accordo che sembra bloccare il lavoro del governo. L’impressione è che il capo dello Stato lavori come se non avesse le mani libere.

L’Associazione mondiale delle Chiese cristiane sottolinea che questo accordo è un sabotaggio al capo dello Stato. Si tratta di un piccolo gruppo influente che ha in ostaggio il presidente della Repubblica. Questo accordo dev’essere annullato.

Un altro obiettivo è quello di spingere per la revisione della decentralizzazione del Paese e far luce sulla destinazione del denaro raccolto dalle tasse. Quindi, la decisione di portare a conoscenza della comunità internazionale i crimini commessi negli ultimi anni in diverse località del Congo, attraverso proteste da parte dei cristiani di tutte le Chiese. Infine, questa assemblea annuncia la costituzione di osservatori e di testimoni elettorali in vista delle prossime elezioni.

L’intervista all’arcivescovo di Kinshasa

Il secondo intervento è dell’arcivescovo di Kinshasa, il cardinale Ambongo Besungu Fridolin (a sinistra nel fotomontaggio).

Dal 27 al 31 dicembre 2019 il cardinale ha visitato il Nord Kivu, Beni e dintorni, teatro, da diversi anni, di sanguinosi e ripetuti attacchi da parte di milizie fino ad ora non ben identificate. Rientrato a Goma, ha rilasciato un’intervista nella quale puntualizza e smaschera con coraggio le politiche internazionali che mirano a balcanizzare il Congo.

In primo luogo, sottolinea la sofferenza delle popolazioni di quella zona, causata dalla barbarie di un gruppo che è manipolato da mani invisibili e la cui finalità è sconosciuta. Dice di aver incontrato gente terrorizzata da un nemico invisibile che sembra perseguire uno scopo ancora nascosto. Dopo aver osservato e ascoltato molto attentamente diversi gruppi di persone, ha capito che è in atto un progetto di balcanizzazione. C’è una volontà di mettere in ginocchio il Congo e di prenderne una grossa fetta (da Bunia, Beni, Butembo, Goma, fino all’altopiano di Fizi).

La realizzazione o l’insuccesso di questo progetto – continua il cardinale – dipende dal popolo congolese. Non è il caso di perdersi in discussioni inutili, in assegnazioni di colpe alla polizia o all’esercito, che ha comunque pagato con la perdita di numerosi elementi. Certamente ci sono cose da correggere, ma sono in primo luogo le autorità dello Stato che devono provvedere ad una solida formazione dei militari, a un equipaggiamento idoneo alla loro missione e ad una “purificazione” dell’esercito da elementi infiltrati. Solo così può tornare la fiducia della gente nei militari e si può creare una nuova collaborazione.

Monsignor Fridolin lancia una sfida ai leader politici perché non scarichino le responsabilità sull’esercito, sulla polizia, sulla Monusco, come se tutte le sventure venissero da loro. La strategia della balcanizzazione passa proprio da qui, dalla volontà di dividere la popolazione e di metterla contro l’esercito e la polizia, azzerando fiducia, collaborazione e rispetto reciproco. Ci sono cose da correggere, ma bisogna essere prudenti e vigilare su questa strategia mirante alla balcanizzazione.

Il coraggio (tanto) di vivere

Verrebbe da dire che qualcosa si muove. Che, almeno da parte dei responsabili cristiani, si ha il coraggio di chiamare le cose col proprio nome; ma il pericolo è comunque presente, sia per la situazione politica interna molto confusa, sia per certe lacune delle istituzioni preposte a proteggere l’integrità della nazione, sia per il persistente vento della corruzione che porta ad allacciare rapporti e a stipulare contratti che appagano solo la bramosia di ricchezza di poche persone.

Di balcanizzazione si parlava già alla fine degli anni Novanta con la partecipazione dell’esercito ruandese alla deposizione di Mobutu, e a quell’epoca essa era stata stigmatizzata dall’allora arcivescovo di Kisangani e presidente della Conferenza episcopale nazionale del Congo, Laurent Monsengwo Pasinya.

Il progetto ritorna in un momento difficile, quando altre priorità richiederebbero ancora maggiore attenzione, come la sanità, col problema sempre presente del virus ebola, l’insegnamento a tutti i livelli, l’occupazione e la sua remunerazione, il rispetto dell’habitat, lo sfruttamento delle enormi ricchezze a favore di una popolazione sempre più affamata…

Eppure la gente trova sempre il coraggio di vivere. Sì, perché, per vivere nel Congo di oggi, ci vuole tanto coraggio.


Giovanni ProssGiovanni Pross, missionario dehoniano nella Rd Congo, per SettimanaNews.

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