Elezioni Usa, cosa succede in Africa se vince Biden?

di Stefania Ragusa
Usa Africa

Se alla Casa Bianca ci sarà un cambio della guardia, gli evangelici di Nigeria e Kenya piangeranno lagrime amare. Come riportato recentemente da Yomi Kazeem su Quartz Africa, e a conferma di quanto rilevato lo scorso gennaio dal Pew Research Center, c’è una significativa parte della popolazione dei due paesi che vede nell’attuale presidente un baluardo contro l’aborto, i gay e la religione islamica. E pazienza per le condizioni peggiorative imposte ai migranti (ai nigeriani in modo particolare) e le simpatie suprematiste. Al di là di questa “curiosità” ci sono molte altre ragioni per cui oggi, dall’Africa, si guarda con attenzione alle presidenziali americane. Basti pensare allo scontro, delocalizzato sul continente, tra Washington e Pechino o alla vicenda della Grand Ethiopian Renaissance Dam, la diga sul Nilo al centro della disputa tra Egitto, Etiopia e Sudan. Se vincesse John Biden, cosa cambierebbe? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Carbone,  ordinario di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Milano nonché responsabile del Programma Africa dell’Ispi, e a Aldo Pigoli, docente a contratto di Storia dell’Africa Contemporanea all’Università Cattolica di Milano ed esperto di geopolitica, geoeconomia, analisi delle relazioni internazionali e negoziazione internazionale.

«Se pensiamo agli ultimi presidenti americani e alla loro relazione con l’Africa, possiamo osservare che sia George W. Bush sia Barack Obama, in modo diametrale ed opposto, hanno disatteso le aspettative. Bush, per contrastare il terrorismo, ha fatto più di quel che ci si aspettava; Obama meno», osserva Carbone. «Trump invece non ha sorpreso. Le sue azioni in Africa, dalla scelta di non metterci piede fino ai dissidi e agli scontri con Oms e Nazioni Unite, hanno rispecchiato il suo approccio generale, rivelando contestualmente, però, ben poca concretezza. Consideriamo la rivalità con la Cina: molte parole dure ma, alla fine, pochi fatti, con l’eccezione del Build Act del 2018 (che ha permesso di raddoppiare – arrivando a 60 miliardi di dollari – il tetto massimo dei progetti infrastrutturali privati che il governo degli Stati Uniti avrebbe potuto finanziare nei paesi in via di sviluppo, ndr). Il Build Act è stato un atto concreto ma comunque tardivo per controbilanciare il finanziamento delle infrastrutture africane da parte della Cina. Anche le dichiarazioni recenti a proposito della diga sul Nilo, che pure rivelano un nervo scoperto, sono apparse soprattutto come un’esibizione di muscoli».

Biden potrebbe agire in un modo diverso? «Sul piano dell’immagine probabilmente sì», prosegue Carbone. «È chiara la sua intenzione di cambiare passo anche nella relazione con l’Africa. Se consideriamo le dichiarazioni pubbliche, fatta eccezione per un generico sostegno ad iniziative di urbanizzazione in grado di migliorare l’accesso all’energia, nei suoi interventi non troviamo però particolari riferimenti all’Africa. C’è da stupirsene? Probabilmente no. L’esperienza cui Biden attinge nella politica estera è quella di Obama. In definitiva, al momento ipotizzerei un cambio di tono più che di sostanza, anche se è possibile che, in caso di vittoria dei democratici, si torni a una maggiore presenza americana nel Sahel e nel Corno d’Africa per contrastare il terrorismo».

In Africa e tra le diaspore, evangelici a parte, c’è tuttavia chi si aspetta “miracoli” in caso di elezione di Biden. Pigoli esorta però alla cautela. «La politica estera statunitense durante il mandato presidenziale di Trump non si è messa in luce per particolari iniziative né per lo sviluppo di una strategia ad ampio respiro. Tuttavia, neanche le precedenti amministrazioni si sono distinte nei confronti del continente, neppure quella del “Presidente africano”, Barack Obama. Vi è una generale e persistente perifericità del continente africano rispetto agli interessi nazionali statunitensi, che nel corso degli ultimi 20 anni ha visto quali elementi di attenzione in primo luogo la lotta al terrorismo e al radicalismo di matrice islamica (in Africa occidentale, Sahel, Corno d’Africa e Nord Africa); la diversificazione energetica rispetto alla dipendenza dal Medio Oriente (almeno fino alla cosiddetta rivoluzione dello shale oil/gas statunitense); la necessità di rispondere alle iniziative economiche e diplomatiche di Pechino, che hanno progressivamente incrementato ruolo e presenza della Repubblica Popolare Cinese, proprio a discapito di Washington. Trump non si è allontanato da questi “driver”. I più critici gli contestano una sostanziale assenza e anche le ben note infelici uscite che hanno profondamente offeso larga parte dell’opinione pubblica africana (si pensi ai cd. “shithole countries”!).

Biden non ha espresso posizioni particolari nei confronti dell’Africa, mentre diversi esponenti democratici nelle istituzioni statunitensi hanno lasciato intendere un cambio di rotta da parte del futuro presidente, se dovesse uscire vincitore dalla competizione elettorale. È vero che Biden si è attorniato di una serie di esperti di politica estera, alcuni dei quali molto vicini al continente africano. Per esempio, Antony Blinken, che ha espresso il suo appoggio per una partnership “USA-Africa” più forte. Poi Nicholas Burns, veterano della politica estera USA con profonda conoscenza del continente africano. E, infine, l’ex ambasciatrice in Botswana, Michelle Gavin. Tuttavia, non penso che la politica estera USA verso l’Africa cambierà radicalmente».

(Stefania Ragusa)

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