Un’altra Korogocho è ancora possibile

di AFRICA
Korogocho

Il nome, reso celebre da un missionario, di questo slum di Nairobi ha catalizzato l’attenzione di società civile e istituzioni, in Kenya e in Italia. Nel 2008 sembrava poter essere una storia di successo a portata di mano. Le cose non sono andate esattamente così. Ma se lo slum è rimasto quello, sono i suoi abitanti a essere cambiati

Correva l’anno 2004 quando prese il via un’importante campagna internazionale, denominata WNairobiW, che spinse il governo italiano a rimettere il debito nei confronti del Kenya contro l’impegno, da parte del Paese africano, di utilizzo dei fondi liberati in programmi di lotta alla povertà e di risanamento urbano. Nacque così il risanamento della bidonville di Korogocho, che era divenuta celebre in Italia per la notorietà di uno dei suoi abitanti, padre Alex Zanotelli.

Risanamento?

Al momento della partenza del progetto, nel 2008, la situazione era la seguente: i proprietari delle baracche erano meno del 20% della popolazione e, di questi, oltre la metà viveva fuori dello slum; oltre l’80% della popolazione residente era costituito da affittuari. I promotori del progetto (Cooperazione italiana, UN-Habitat, governo keniano e Comune di Nairobi) valutarono che il primo passo fosse svolgere un censimento partecipato della popolazione ed eleggere un comitato consultivo degli abitanti (Residents’ Committee), formato da sei persone per ogni villaggio di Korogocho (in totale 48 membri), con una rappresentanza di proprietari delle baracche, affittuari, giovani, anziani e donne.

Le elezioni avvennero secondo il modello del mlolongo (coda davanti al candidato). Conseguenza diretta di tale scelta fu la presenza di ben 30 structure owners (proprietari delle baracche) su 48 nel Residents’ Committee, e di 8 nell’Executive Residents’ Committee insieme a due affittuari e a un giovane. Quel completo ribaltamento della rappresentanza ha portato a una prima, cruciale decisione sul processo di upgrading: tralasciare il modello di gestione inizialmente previsto dal progetto, basato sul community land trust (proprietà collettiva della terra), per orientarsi verso un titolo di proprietà individuale. Si favoriva così l’interesse dei soli proprietari (la minoranza).

Il secondo passaggio del Residents’ Committee rafforzò ulteriormente la politica degli structure owners, convincendo i realizzatori del progetto che, non essendoci terra per tutti, questa «va data in primis ai proprietari delle strutture» e, se qualcosa resta, agli affittuari più vecchi (con oltre dieci anni di residenza). In sintesi, il processo di partecipazione ha costruito e rinforzato i preesistenti e sbilanciati rapporti di potere, istituzionalizzandoli a completo danno delle fasce più povere della popolazione. Le elezioni hanno formalizzato e dato una connotazione democratica allo squilibrio, trasformando la partecipazione in una gara falsa, perché condotta tra soggetti impari (ricchi contro poveri, istruiti contro analfabeti) e con modalità (mlolongo) intimidatorie. In questo modo si è istituzionalizzata una forma di violenza strutturale.

Le barriere della partecipazione

La partecipazione ha un costo, e per favorirla occorre rimuovere le barriere che escludono di fatto i cittadini più vulnerabili: per partecipare infatti servono tempo, informazione, un minimo di istruzione (saper leggere). Nel corso del progetto si sono svolti con frequenza workshop di formazione, ma con scarso preavviso e su base volontaria. Chi, in uno slum, ha del tempo libero e può non lavorare per giorni? I proprietari delle baracche, perché la loro entrata è la rendita, non il lavoro.

Di conseguenza, le modalità di partecipazione, il processo di raccolta dati, le élite preesistenti, hanno portato all’esclusione dal progetto proprio di coloro che dovevano esserne i beneficiari primari. Il progetto non è stato in grado di agire contro l’ineguale struttura sociale e addirittura ha trasformato le élite in “voce della comunità”.

Partecipazione è una bella parola, ma va messa in pratica e per far sì che ciò avvenga è necessario investire per rimuovere le barriere che la ostacolano, creare modelli di intervento e processi dove i poveri possano avere voce. Altrimenti è solo propaganda, un populismo di facciata per dare a Cesare (al potere) ciò che è dell’uomo (il diritto). 

Il cambiamento in atto

Tuttavia, è opinione comune che l’upgrading stia comunque conseguendo dei risultati positivi. A livello di educazione gli abitanti segnalano una maggiore presenza di scuole e a prezzi più accessibili. La tutela della salute permane un problema, data la carenza di un sistema fognario e l’insufficienza di luoghi di cura e soccorso. La realizzazione di una strada asfaltata ha migliorato l’accessibilità al luogo, con impatto positivo anche sull’economia locale e sulla sicurezza. Per contro, le caratteristiche delle abitazioni non sono cambiate: restano di fango e lamiere.

L’utopia 12 anni dopo

Dieci anni dopo, Korogocho è sempre uno slum. Nonostante l’impegno della Chiesa (in particolare dei missionari comboniani), delle agenzie internazionali e della Cooperazione italiana, è ancora quello che non c’è a dire ciò che Korogocho è. Eppure Korogocho continua a essere un luogo di sogni e utopie concrete: uno spazio di partecipazione dal basso. Il luogo fisico non è cambiato granché, ma le persone sì. Il sogno di un’altra Korogocho continua a essere possibile, non solo in cielo ma anche in terra.

(Fabrizio Floris)

 

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