di Vincenzo Corrado
Dai campi polverosi del Delta del Niger alla gloria olimpica, dall’Inter alle iconiche treccine, fino alla chiesa di Lagos. La vita dell’ex calciatore Taribo West è un romanzo di fede, potenza e contraddizioni.
Gelsenkirchen, 17 marzo 1998. Un giocatore si avventa su un cross dalla destra, stacca con un tempismo perfetto e colpisce di testa. Il pallone passa nello spazio tra il portiere – che resta impassibile – e il palo alla sua sinistra. Il boato dello stadio è un terremoto. L’uomo che esulta con il pugno alzato ha un corpo massiccio, le treccine che ondeggiano. Taribo West ha appena deciso la partita.
Quel gol nel ritorno dei quarti di Coppa Uefa nello stadio dello Schalke 04 resterà uno dei simboli della sua esperienza all’Inter. Non per la sua bellezza, né per la sua importanza assoluta, ma perché in quell’attimo c’è molto del suo calcio: potenza ed esuberanza. Anche senso teatrale. E perché racconta un giocatore che, nel bene e nel male, non poteva mai passare inosservato.
Raccontare Taribo West significa uscire dai cliché, dall’acconciatura pittoresca, dalle battute su Dio e le sparizioni improvvise. Dietro quell’immagine folcloristica c’era un uomo pieno di contrasti, un calciatore migliore di quanto la memoria collettiva voglia ricordare.
West è stato un difensore vero, arcigno, fisico. Ha giocato in un’Inter che lottava per lo scudetto, è stato campione di Francia con l’Auxerre, ha vinto una medaglia d’oro olimpica con la Nigeria. Ma è stato anche un uomo costantemente in fuga, un irregolare del calcio.
La sua carriera è stata un paradosso continuo. Difensore capace di prestazioni dominanti e di amnesie inspiegabili, icona estetica fuori da ogni canone e allo stesso tempo uomo di fede profondissima, ha sempre vissuto ai margini delle categorie con cui si giudica un calciatore. Di certo non è stato un fuoriclasse, ma nemmeno un mestierante. È stato qualcos’altro. Un difensore che viveva la sua carriera con un’intensità quasi mistica, come se in ogni scivolata si decidesse il destino del mondo.
Forse per capirlo davvero, dovremmo smettere di chiedergli quanti anni ha, e iniziare a chiederci quante vite abbia vissuto.
L’Europa vista dal Delta del Niger
Nato a Port Harcourt, una delle città più grandi della Nigeria, West è cresciuto in una realtà in cui il calcio non somiglia a un sogno, ma a una possibilità di fuga. Da bambino aiutava la madre a vendere l’akara, una sorta di torta di fagioli fritti, mentre il padre lo mandava a pescare lungo il fiume Bonny per sfamare la famiglia. Come tanti altri ragazzi del suo quartiere, si è trovato presto di fronte a un bivio: entrare in una delle bande criminali che controllavano le periferie o provare a costruirsi una vita con lo sport.
Per un periodo ha fatto entrambe le cose. Si unisce agli “Area Boys”, un gruppo di strada di Lagos, ma poi assiste all’omicidio di un amico e capisce che quella non può essere la sua strada. Si dedica interamente al calcio e, dopo qualche anno nelle squadre locali, viene notato da Monday Sinclair, uno scout che lo porta in Europa. Nel 1993, a 19 anni (almeno secondo i documenti ufficiali), lascia la Nigeria per firmare con l’Auxerre. È il primo grande salto della sua carriera. Ma la realtà del calcio francese è completamente diversa da quella dei campi polverosi della Nigeria.
All’inizio, West fatica ad adattarsi. Ma ha qualcosa che lo distingue dagli altri: un’energia inesauribile, un’intensità che lo porta a giocare ogni allenamento come se fosse una finale. Guy Roux, storico allenatore dell’Auxerre, capisce di avere tra le mani un difensore grezzo ma con un potenziale enorme. Lo affina, lo disciplina (per quanto possibile) e lo trasforma in un titolare.
In Francia, West vince due Coppe nazionali e un campionato, ma è con la maglia della Nigeria che entra nella storia.
Atlanta 1996
I Giochi Olimpici di Atlanta ‘96 sono un momento storico per il calcio africano. La Nigeria, guidata da una generazione di talenti forse irripetibile – Okocha, Kanu, Babayaro, Ikpeba, Oliseh – sorprende il mondo e conquista l’oro. In semifinale batte il Brasile di Ronaldo, Bebeto e Roberto Carlos. In finale supera l’Argentina di Crespo, Ortega, Zanetti e Simeone con un incredibile 3-2, grazie a un gol di Emmanuel Amunike allo scadere.
West è uno dei leader difensivi di quella squadra, un punto di riferimento nella retroguardia. La vittoria olimpica lo consacra a livello internazionale e apre le porte a un trasferimento in un club più prestigioso. L’Inter di Moratti, che in quegli anni sta costruendo una squadra ambiziosa, lo porta a Milano nel 1997 pagandolo 6 miliardi di lire. È il momento in cui West entra definitivamente nel mito.

Taribo West e l’Inter
Quando West arriva all’Inter nell’estate del 1997, la Serie A è ancora il campionato più duro e competitivo del mondo. Il livello tecnico è altissimo, le squadre italiane dominano in Europa, e il calcio difensivo è un’arte portata alla perfezione. West si ritrova in una squadra piena di talento: Ronaldo, Djorkaeff, Zamorano, Simeone.
Il suo primo anno è positivo. Con Gigi Simoni in panchina, l’Inter sfiora lo scudetto e vince la Coppa Uefa battendo la Lazio in finale per 3-0. West non è un titolare fisso, ma gioca partite importanti e segna anche un gol decisivo nei quarti di finale contro lo Schalke 04.
Nel suo momento migliore, è un difensore capace di marcare a uomo chiunque, di tenere testa agli attaccanti più forti del mondo con una combinazione di fisicità e atletismo. Certo, non ha il senso della posizione di Maldini, né l’eleganza di Nesta, ma ha un’aggressività che lo rende un incubo per chiunque debba affrontarlo.
Per i tifosi, diventa subito un’icona. Non solo per il suo stile di gioco, ma anche per il look: le treccine colorate, che cambia a seconda della squadra in cui gioca, diventano un marchio di fabbrica. È il primo calciatore in Serie A a portare un’estetica così radicalmente diversa, a rompere un certo formalismo che caratterizzava il calcio italiano. Ma con il passare dei mesi, emergono anche i problemi.
West è un marcatore straordinario quando è concentrato, ma troppo istintivo per essere affidabile a lungo termine. Marcello Lippi, che arriva sulla panchina nerazzurra nell’estate del 1999, non si fida di lui. Il rapporto tra i due è pessimo fin dal primo giorno. Lippi cerca ordine e disciplina, West è il caos fatto giocatore.
L’episodio che segna la loro rottura è ormai leggendario. Un giorno, prima di una partita, West si presenta al pranzo della squadra con un’ora di ritardo. Lippi gli chiede spiegazioni, e lui risponde:
“Mister, Dio mi ha detto che oggi devo giocare.”
Lippi, glaciale, ribatte: “Strano, a me non ha detto niente.”
West capisce che la sua avventura all’Inter è finita. A gennaio rescinde il contratto e fa una scelta clamorosa: passa al Milan.
Perché proprio il Milan
Il passaggio di West al Milan è uno degli episodi più controversi della sua carriera. I tifosi interisti lo vedono come un tradimento, ma la realtà è che West vuole semplicemente restare a Milano, dove ha già messo radici con la sua comunità religiosa. Il Milan, però, è una squadra diversa dall’Inter. Qui il talento individuale non basta, servono disciplina e ordine tattico. Alberto Zaccheroni lo utilizza pochissimo: in rossonero West gioca appena 4 partite prima di essere ceduto. Da quel momento, inizia per lui un lungo esilio dal grande calcio.
Passa per il Derby County in Inghilterra, dove si rende protagonista di un’altra storia assurda: durante la stagione sparisce per qualche settimana, e quando torna spiega che era in Nigeria per il suo matrimonio. Va al Kaiserslautern in Germania, ma viene cacciato dopo pochi mesi per motivi disciplinari. Finisce al Partizan Belgrado, dove vince il campionato serbo, ma lì emergono le prime accuse su una possibile falsificazione della sua età.
L’ex presidente del Partizan, Zarko Zecevic, dichiara che West non aveva 28 anni come diceva, ma 40. La storia fa il giro del mondo. West si difende con ironia: “Se davvero avevo 40 anni, come ho fatto a giocare altri sette anni dopo?”. Nessuno saprà mai la verità. Ma il sospetto che West fosse più vecchio di quanto dichiarato lo accompagnerà per sempre.
Dopo la Serbia, continua il suo pellegrinaggio calcistico: va in Qatar, poi torna in Inghilterra al Plymouth, infine chiude la carriera in Iran, al Paykan Teheran, senza mai scendere in campo. È la fine di un viaggio calcistico che lo ha portato ovunque, ma senza mai trovare un posto in cui fermarsi davvero.

Taribo il pastore
Di Taribo West si ricordano tutti gli aneddoti più folli: il difensore che spariva nel nulla per settimane, il calciatore che voleva convincere gli allenatori con messaggi divini, l’uomo delle treccine colorate e delle entrate al limite del codice penale. Ma pochi hanno provato a capire l’uomo dietro il personaggio.
West era anche un giocatore che metteva in campo un’emotività rarissima, uno di quelli che vivevano il calcio come se fosse un’estensione della propria esistenza. E forse è proprio per questo che oggi, a distanza di anni, è ancora ricordato con affetto dai tifosi interisti. Perché il calcio ha sempre bisogno di giocatori che sfuggano alle definizioni tradizionali.
Dopo il ritiro, avrebbe potuto fare come tanti altri ex giocatori: diventare opinionista, procuratore, dirigente. Ma sarebbe stato troppo prevedibile per uno come lui. Nel 2014, apre una chiesa a Lagos, la sua città natale, e diventa pastore pentecostale. Il nome della sua congregazione è emblematico: “Shelter in the Storm” (Riparo nella tempesta). Non è solo un nome evocativo. La sua missione è letterale: West si dedica ad aiutare i più deboli, in particolare le donne nigeriane vittime della tratta e i bambini di strada.
“Ho usato la mia chiesa mentre ero a Milano per aiutare le ragazze nigeriane portate in Italia per prostituirsi. Abbiamo dato loro un posto dove stare e li abbiamo aiutati a trovare lavoro e ottenere i documenti”. Per lui non è solo religione, ma un modo di continuare a combattere le sue battaglie, lontano dal calcio.
Taribo aveva un rapporto strano col silenzio. Lo cercava, lo abbracciava. Diceva che la vera voce di Dio non si sente con le orecchie, ma con il cuore agitato.
La sua fede, che lo ha sempre accompagnato anche durante la carriera, diventa il suo nuovo campo di gioco. Con la stessa energia con cui inseguiva gli attaccanti, ora predica e cerca di salvare chi ha perso la strada. È un uomo che ha visto la miseria da vicino, che sa cosa vuol dire partire dal nulla e costruirsi una vita in mezzo alle difficoltà. E anche in questa nuova veste, West rimane esattamente quello che è sempre stato: un essere umano impossibile da incasellare. Un predicatore prestato al calcio: il suo corpo era il tempio, la marcatura il sermone.