Sudan | Non c’è pace per il Darfur

di Valentina Milani
ribelli del darfur

Una nuova ondata di violenze nella regione del Darfur, in Sudan, ha provocato la morte di circa 60 persone. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari in Sudan (Ocha) ha riferito che, sabato 25 luglio, circa 500 uomini armati hanno attaccato il villaggio di Masteri (al confine con il Chad), situato a 48 km da Geneina, capitale della provincia occidentale del Darfur.

Gli scontri, iniziati sabato e durati fino a domenica, hanno portato all’uccisione di decine di civili, inclusi diversi bambini. L’Ocha ha precisato che per tutta la settimana si sono registrati, in diverse zone della regione, incendi, saccheggi e danni alle infrastrutture. Inoltre, sempre nel fine settimana, sette persone sono morte in un attacco delle milizie nel Darfur meridionale, mentre in precedenza le forze armate sudanesi avevano annunciato che gruppi appartenenti al Movimento di liberazione del Sudan e al Consiglio di risveglio rivoluzionario avevano attaccato le forze armate nell’area del Jebel Marra occidentale in violazione del cessate il fuoco.

Le autorità locali hanno chiesto rinforzi militari per fermare le violenze, ha specificato il rapporto delle Nazioni Unite, e il primo ministro sudanese, Abdalla Hamdok, ha annunciato che schiererà nuove forze di sicurezza, in particolare esercito e polizia, «per cercare di fermare gli scontri e proteggere i cittadini e i campi». Gli attacchi sono infatti avvenuti nel mezzo della stagione dei raccolti agricoli e hanno aumentato i bisogni umanitari degli abitanti della regione dove si stima che circa 2,8 milioni di persone non dispongano di un’appropriata sicurezza alimentare, soprattutto nel periodo compreso tra giugno e settembre. Di queste, oltre 545.000 risiedono nel Darfur occidentale (dati Ocha).

Questi attacchi sono solo gli ultimi di una lunga serie: il conflitto del Darfur è infatti iniziato nel 2003, dopo che alcuni ribelli, per lo più non arabi, sono insorti contro il governo di Khartoum. Le forze governative, e in particolare le milizie arabe formate dai cosiddetti janjaweed (letteralmente “demoni a cavallo”) che si sono mosse per reprimere la rivolta, sono state accusate di atrocità e violenze diffuse.

Secondo le stime delle Nazioni Unite circa 300.000 persone hanno perso la vita in questo interminabile conflitto. La milizia Janjaweed, appoggiata dal governo e formata principalmente da tribù di pastori arabi, è ritenuta responsabile di un gran numero di violenze e massacri. Lo stesso ex presidente Omar al-Bashir, deposto con una rivolta popolare l’11 aprile 2019, è stato accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità: lo scorso dicembre le autorità del Sudan hanno aperto un’indagine contro l’ex presidente e contro circa 50 funzionari dell’ex regime per i reati commessi proprio nel Darfur.

Esattamente tre anni fa, inoltre, i giudici della Corte penale internazionale (Cpi) stabilirono che il governo del Sudafrica mancò di rispettare i propri obblighi quando, nell’estate del 2015, non diede esecuzione al mandato d’arresto internazionale stabilito dalla procura de L’Aja  nei confronti di al-Bashir che, allora presidente, si era recato a Johannesburg per un vertice dell’Unione africana.

Attualmente, in aree remote del Sudan, come quella del Darfur, la maggior parte delle persone vive in campi per sfollati e rifugiati. Il 13 luglio il Sudan ha dichiarato lo stato di emergenza  in una parte della regione occidentale del Darfur a seguito delle continue violenze e dei disordini ingestibili.

Il governo civile di transizione, instauratosi a Khartoum dopo la caduta dell’ex presidente Omar al-Bashir, l’11 aprile 2019, ha promesso di porre fine al conflitto e sta portando avanti le discussioni con alcuni dei gruppi ribelli che avevano combattuto contro il potere centrale nel Darfur e in altre parti del Paese. Ma non si è ancora raggiunto un accordo .

Nel frattempo, però, le persone continuano a morire.

(Valentina Giulia Milani)

 

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