Sale l’entusiasmo per il rugby in Africa, le donne alla guida della crescita

di claudia

di Andrea Spinelli Barrile

Oggi il rugby è lo sport più in crescita di tutti nel continente africano: nel 2002 c’erano solo sei Paesi dove questa disciplina era una realtà semi-professionistica o professionistica: Marocco, Sudafrica, Namibia, Tunisia, Zimbabwe e Costa d’Avorio. Oggi sono 37: un terzo dei Paesi che giocano a livello competitivo nel mondo sono africani. A guidare la crescita è il rugby femminile, diffuso e scelto dalle giovani nel continente come in nessun altro luogo al mondo. Ma, per le rugbiste africane, le opportunità di competizione sono ancora poche.

Il rugby è uno sport che con l’Africa ha, da sempre, un legame molto speciale. Nel 1891 gli Springboks, la nazionale sudafricana, hanno rappresentato per la prima volta la Colonia di Città del Capo durante il primo tour della squadra delle Isole Britanniche (oggi British and Irish Lions) nel continente africano, interamente finanziato da Cecil Rhodes. In quel tour fu presentata la Currie Cup, che ancora oggi viene alzata da chi vince il campionato sudafricano di rugby a 15. La storia recente del Sudafrica e quella del rugby sono strettamente legate: l’apartheid c’è stata anche nello sport e ancora oggi è possibile osservare una divisione, benché non più così netta, tra chi pratica il calcio (i neri) e chi il rugby (gli afrikaner).

Nel 1986, quando a Tunisi nacque la federazione africana di rugby, il Paese fu escluso dalla federazione continentale per la sua politica di apartheid e fino alla liberazione di Nelson Mandela il Sudafrica non ha potuto partecipare a nessuna partita internazionale ufficiale. Il mondo ha utilizzato il rugby come strumento di boicottaggio dell’apartheid ma nel 1994 Nelson Mandela ribaltò le sorti del Paese utilizzando il rugby come strumento politico per l’unità nazionale.

Quando gli Springboks, quell’anno, vinsero il mondiale, tutto il Paese era in festa. Nella Coppa del mondo di rugby la Namibia è la seconda nazionale ad aver rappresentato l’Africa, con sei partecipazioni nel 1999, 2003, 2007, 2011, 2015 e 2019. Lo Zimbabwe ha partecipato due volte, nel 1987 e nel 1991, e la Costa d’Avorio una volta nel 1995.

Oggi il rugby è lo sport più in crescita di tutti nel continente africano: nel 2002 c’erano solo sei Paesi dove questa disciplina era una realtà semi-professionistica o professionistica: Marocco, Sudafrica, Namibia, Tunisia, Zimbabwe e Costa d’Avorio. Oggi sono 37: un terzo dei Paesi che giocano a livello competitivo nel mondo (105) sono africani, 7 tra i primi 50 del ranking mondiale. Tra il 2016 e il 2018 i Paesi che hanno registrato il più rapido aumento del numero totale di giocatori sono stati Nigeria, Mauritius, Madagascar, Namibia e Sudafrica. La Nigeria, dal 2012 al 2017, ha
visto un incremento del 282% del numero dei tesserati, il Senegal del 292%. Il Madagascar è il Paese africano con il più alto numero di club di rugby pro capite al mondo: solo ad Antananarivo ci sono 160 squadre di rugby, mentre in tutto il Paese sono oltre 600 i club. Nell’anno 2017 il numero di giocatori di rugby africani (escludendo il Sudafrica) è cresciuto del 66%, a fronte di un tasso globale del 27%.

Secondo i dati di Rugby Afrique, la federazione ovale africana, in Africa c’è oltre un milione di rugbisti in 39 Paesi impegnati in sette diverse competizioni continentali, oltre ai vari campionati nazionali. Numeri che si traducono anche in possibilità economiche: in cinque Paesi africani la penetrazione media dei tifosi di rugby è valutata al 35%, rispetto a una media globale inferiore al 20%: in Sudafrica, ovviamente, ma anche in Nigeria, Madagascar, Kenya e Camerun. Rugby Afrique adotta una politica espansiva molto peculiare, trasmettendo le sue competizioni in diretta sui social
network, al fine di attirare sempre più fan africani e inserzionisti ma anche per provare a uscire dalla bolla africana. In questo senso il rugby africano conta di costruirsi un appeal attraente, parlando direttamente ai fan già esistenti e futuri.

I dati al rialzo si fanno ancora più impressionanti se si osserva il rugby femminile, che in Africa cresce come da nessuna parte al mondo. Un fenomeno apparentemente inusuale ma che si spiega con la necessità di autodeterminarsi: «Quello di cui non ci siamo resi conto subito era il fatto che stavamo proponendo un’attività sportiva veramente aperta a tutti, maschi e femmine: in quel contesto era una cosa innovativa».

Irene Bellamio è un’educatrice italiana che vive a Maputo, in Mozambico, dove coordina Rugbio Magoanine, una squadra di rugby giovanile che negli ultimi anni ha visto una crescita enorme del numero di atleti e, soprattutto, atlete. «Sicuramente il fatto che ci fosse una donna, oltre agli allenatori uomini, in pantaloncini e fischietto, ha fatto sentire le ragazzine autorizzate a partecipare a questa nuova esperienza». All’inizio, più del 70% dei giovani coinvolti era in realtà composto da ragazzine: «Ci trovavamo in una situazione che non avevamo previsto ed è stato difficile convincere gli allenatori uomini che aveva senso lavorare con le ragazze. Anche per loro è stata una sfida». Inizialmente nato come attività all’interno di una casa famiglia, il progetto Rugbio Magoanine è cresciuto in fretta diventando un’attività scolastica e finendo per coinvolgere tutta la comunità locale, a 18 chilometri dal centro di Maputo. «Molte famiglie – prosegue Irene – riconoscono per la prima volta un supporto educativo in un agente sportivo, non hanno mai considerato lo sport o le attività extrascolastiche come dei momenti che possono essere invece risorse, anche di sostegno alla genitorialità».

Si tratta quindi non solo di insegnare una disciplina sportiva ma anche «di creare una sorta di triangolo educativo tra la scuola, la famiglia e lo sport». E per le ragazze, la realtà che si è venuta a creare assume una valenza in più rispetto ai loro colleghi maschi. Il fatto di aver trovato uno spazio protetto di sperimentazione, spiega Irene, dove le ragazze possono crescere facendo delle attività diverse da quelle consuetudinarie, rappresenta un valore nuovo per le giovani rugbiste e le loro famiglie. Senza il rugby non sarebbe stato possibile e questo ha delle ripercussioni su tutta la comunità: «Abbiamo ragazze che stanno finendo la 5a superiore e che si iscriveranno a una scuola sportiva perché hanno trovato una loro dimensione, un’area in cui riescono a esprimersi».

Rugby Afrique tende a promuovere molto il rugby femminile africano, tramite politiche di inclusione, bandi, finanziamenti e contatti, ma all’atto pratico è la stessa federazione continentale ad ammettere che non ci sono abbastanza opportunità di competizione per le rugbiste africane. Ad oggi esiste un solo torneo annuale di Rugby 7 a loro dedicato. L’obiettivo è far avanzare il rugby e i suoi valori presso le ragazze africane, aumentando la percentuale di giocatrici fino al 40% dei tesserati totali entro il 2025 (oggi le donne sono poco più del 12% del totale, sempre secondo Rugby Afrique). In
più, arbitri donne africane stanno già dirigendo partite maschili di alto livello.

La partecipazione alle competizioni, infatti, è fondamentale per la crescita in Africa di questo sport, tanto quello giocato quanto quello arbitrato, perché in occasione delle competizioni gli atleti e le atlete hanno la possibilità di confrontarsi con altri stili e culture di gioco. E poi c’è l’aspetto legato all’economia che ruota attorno alla palla ovale. È una sfera fatta di merchandising, investitori, biglietti per le partite di alto livello, ambiti in grado di generare guadagni significativi, ma
sono incluse anche iniziative come quella di Rugbio Magoanine, che per crescere necessitano di sponsor, donazioni, lavoro, strutture adeguate e tanta comunicazione, sia per permeare le comunità locali sia per uscire dalla bolla e arrivare su palcoscenici più ampi. Magari internazionali.

Questo articolo è uscito sul numero di ottobre 2022 del mensile Africa e Affari

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