Quando la coltura è cultura

di Enrico Casale
coltura

Chi non ha mai visto uno dei documentari per antonomasia, quelli sulla migrazione dei grandi erbivori? Se ne sono prodotti a centinaia. Ma provate a domandare ad amici o parenti il periodo di partenza, di arrivo e di ripartenza della transumanza delle mandrie di gnu e quali sono gli stati che attraversano «senza passaporto». A meno che tra i vostri amici e consanguinei non figuri David Attenborough, probabilmente nessuno saprà rispondere. Un meccanismo che rappresenta bene il modo in cui l’Occidente in genere si pone davanti all’Africa: si lascia meravigliare, ma raramente vuole davvero comprenderla.

Tornando al nostro documentario, il picco d’interesse si concentra sulla scena della battuta di caccia – scolpita, questa sì, nell’immaginario di qualunque telespettatore – quando il povero gnu lotta fino allo stremo contro una mezza dozzina di leonesse oppure con un coccodrillo di quattro quintali attaccato al collo e cerca di non affogare mentre attraversa il maledetto guado dove si gioca la vita. Qualche minuto di adrenalina è più soddisfacente di un’ora di soporifero filmato ma, soprattutto, non si fa troppa fatica a capire.

Invece capire, purtroppo, implica fatica dedizione, riflessione, e soprattutto osservazione: come quella che hanno avuto tre grandi uomini con la passione della terra, tre agronomi, muniti di titoli accademici convenzionali o «da campo», le cui idee che hanno fatto la differenza. Si chiamano Pierre Rabhi, Yacouba Sawadogo e Venanzio Vallerani. Rabhi è il filosofo, il visionario potente, pioniere dell’agroecologia. Yacouba Sawadogo è l’agricoltore del Burkina Faso che ha rilanciato tecniche agronomiche tradizionali per contrastare fame e desertificazione. Questa idea gli è valsa il Nobel alternativo, il «Right Livelihood Award», che premia «persone che si ingegnano a trovare soluzioni a problemi globali». Venanzio Vallerani, italiano, è l’uomo che ha messo il turbo al passato, trasformandolo in futuro. Ha capito che andavano salvaguardati i sistemi agronomici ancestrali e ha moltiplicato la loro efficacia applicandovi il know-how occidentale.
Ogni azione di questi tre uomini ha creato paesaggio agrario. Dal loro lavoro scaturisce un capolavoro di sapere, di arte, di estetica e, quindi, di cultura. In estrema sintesi, sapienza e bellezza, ma anche: sapienza è bellezza. E viceversa.

Uscire dalla stereotipo

Se torniamo indietro nei secoli, vedremo che l’uomo, nel costruire le sue primarie economie, ha modellato e plasmato la natura in base alle proprie esigenze, in maniera funzionale e conscia, per trarne sostentamento. Di contro, inconsciamente, il suo agire ha prodotto un sapere anche profondamente culturale, che potremmo definire l’estetica agraria: ovvero l’invito alla contemplazione che naturalmente risuona in chi guarda un paesaggio agrario tradizionale. Come ha capito Rabhi, siamo tutt’uno con la terra. Il nostro corpo è la terra, ama ripetere: «humus, umanità, umiltà sono concetti collegati e costituiscono un simbolo fantastico dello sviluppo della vita». La strada che sembrano indicare questi lungimiranti agronomi, insomma, è che se alle genti d’Africa hanno strappato l’identità, è nella stratigrafia culturale insita nel paesaggio agrario che possono ritrovarla. In quelle terre dove è nato l’uomo e da cui tutti noi proveniamo.

Identikit di tre agronomi geniali

Rabhi è un pensatore che conosce però la fatica del lavoro, sia in fabbrica sia nei campi. Figlio del deserto, (viene al mondo nel 1938 nel Sud dell’Algeria) e figlio adottivo della Francia. Strenuo difensore del bene comune più grande che abbiamo, il Pianeta. È il colibrì che, come racconta una leggenda andina, cerca di spegnere un incendio nella foresta con le gocce d’acqua contenute nel suo becco. Gli altri animali gli dicono che è inutile e gli chiedono: «Perché lo fai?». E lui: «Voglio fare la mia parte». Allo stesso modo, Rabhi, «parte da sé» e il movimento che fonda nel 2007 per incoraggiare nuovi modelli di società fondati su autonomia, ecologia e umanesimo, si chiama proprio così, «Il colibrì». Le sue iniziative hanno avuto riconoscimenti internazionali (Nazioni Unite) nel campo del contrasto alla desertificazione. È stato consulente in programmi di sviluppo in Burkina Faso, Camerun, Mali, Senegal, Niger, Tunisia, per la conservazione dei patrimoni alimentari locali e contro sterilità del suolo.

In una ideale staffetta, è il primo atleta, quello che esce dai blocchi e fa correre veloci le idee. Dalle sue mani raccoglie il testimone Yacouba Sawadogo. L’agricoltura sostenibile ha bisogno di strumenti adeguati ed efficaci. Lui li trova nei saperi dei padri, in tecniche cadute in disuso nei sistemi intensivi. Sawadogo dimostra invece le potenzialità della loro energia colturale e culturale. Capisce che bisogna tornare a piantare i semi usando le tecniche delle «Zai» e delle «demi-lunes». Si tratta di pozzi o conche a mezza luna, a seconda dei contesti territoriali (foreste o campi a seminativo): solchi che facilitano la captazione di acqua piovana e riducono la dispersione delle sostanze nutritive, causata soprattutto dall’azione del vento, e favoriscono l’accumulo di sostanza organica. Nella nostra staffetta è l’uomo che «corre il lanciato»: col testimone stretto in mano, è quello che deve garantire che l’abbrivio iniziale non si spenga, che le idee che ha ereditato continuino a tradursi in fatti. E fino ad ora, grazie alle tecniche riscoperte da Sawadogo, sono stati ripristinati migliaia di ettari di terra fertile in Burkina Faso e Niger.

L’ultimo staffettista, quello che ha negli occhi il traguardo, è Venanzio Vallerani. È la fine degli anni Ottanta quando progetta due aratri, il «Delfino» e il «Treno», sulla semplice base di un’osservazione geniale: in pratica, quelle lavorazioni che gli agricoltori di Sawadogo facevano a mano, Vallerani le meccanicizza, ma non le stravolge minimamente. Lascia il loro principio intatto, riuscendo a scavare da 5.000 a 12.000 metri cubi di terreno al giorno, per formare micro-bacini per il rimboschimento e rinverdimento delle zone aride, a fronte dei 5 metri cubi scavati da un uomo nel medesimo tempo.
Le grandi organizzazioni internazionali hanno riconosciuto il sistema Vallerani impiegandolo nei loro progetti e lo adottano nei Paesi ad alto rischio di desertificazione. Ad oggi, gli aratri sono impiegati in 12 Stati, in maggioranza nell’areale sub-sahariano, includendo anche Siria, Giordania, Cina.

L’aggettivo che fa la differenza

Se ci perdonate un altro piccolo test, siamo pronti a scommettere che, parlando di «cooperazione», il primo aggettivo che viene in mente è «internazionale» e l’immagine che si forma subito nei nostri pensieri è quella della grande macchina dell’Occidente che si mette in moto. Le storie dei tre agronomi controcorrente che abbiamo provato ad accennare dimostrano che non bisognerebbe parlare di cooperazione internazionale, ma di cooperazione culturale. E che al di là delle bandiere e dell’ovviamente apprezzabile volontà di adoperarsi tutti per un fine comune, sono le forti passioni, il duro lavoro sul campo, la capacità di ascolto, la voglia di osare a divenire scintilla per un processo virtuoso di buone pratiche. Il lavoro di Rabhi, Sawadogo e Vallerani è ispirato dalla stessa formula: cultura x coltura = speranza per le nuove generazioni.
E comunque, per non lasciare niente in sospeso: le nazioni che lo gnu attraversa nelle sue migrazioni vanno dal parco del Serengeti (che si estende tra Kenya e Tanzania), al parco nazionale del Masai Mara (Kenya), tra giugno e luglio, seguendo le piogge verso i nuovi pascoli da Sud verso Nord. Le mandrie poi si ritrovano tutte a ridosso del fiume Grumeti, quindi sul Mara, ultimo punto di raduno a fine viaggio. Il fiume chiaramente è pattugliato dai coccodrilli che aspettano gli gnu. Che, a loro volta, cercano il guado per passare verso la morte o la vita.

Stefano Ripert

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