“Più capitalismo”, la ricetta dell’Economist per l’Africa

di claudia

di Stefano Pancera

Sta facendo discutere un’analisi pubblicata dal The Economist dedicata al continente. Il settimanale economico inglese ha cambiato la sua visione sull’Africa, passando da una prospettiva di disperazione nel 2000 a una di speranza nel 2011, per poi suggerire nel 2025 che il continente abbia bisogno di una “rivoluzione capitalista”.

Ogni volta che il settimanale economico inglese The Economist decide di dedicare una copertina all’Africa, tra gli addetti ai lavori si apre un acceso dibattito. Nel 2000, con la prima copertina “The Hopeless Continent” si decretava “Un continente senza speranza” ma è stato proprio in quegli anni che la crescita africana è decollata.

Nel 2011 si cambia prospettiva e il settimanale decide di tornare un po’ tardivamente sulla questione della crescita africana annunciando “Africa Rising”, l’ascesa africana. Non appena pubblicato il reportage, la crescita economica africana diminuì.

Comunque sia The Economist con i suoi reportage (da “The New Scramble for Africa” a “The Future of Africa”) ha giocato un ruolo importante nella percezione dell’Africa, passando da una visione di disperazione a una di speranza e opportunità economiche.

Oggi il titolo è “Africa needs a capitalist revolution” e suggerisce la soluzione: “La rivoluzione capitalista di cui l’Africa ha bisogno”.
“Mentre il resto del mondo invecchia – si legge nell’editoriale di apertura – l’Africa diventerà una fonte cruciale di manodopera: più della metà dei giovani che entreranno nella forza lavoro globale nel 2030 sarà africana. Ma se i suoi 54 paesi vogliono coglierla, dovranno fare qualcosa di eccezionale: rompere con il proprio passato e con l’ortodossia statistica disastrosa che ora pervade gran parte del mondo. I leader africani dovranno abbracciare gli affari, la crescita e i mercati liberi. Sarà necessario scatenare una rivoluzione capitalista.”

“L’Africa è un deserto aziendale” è uno dei leitmotiv. Parole forti che ricordano come negli ultimi 20 anni, il Brasile abbia dato vita a giganti fintech, l’Indonesia a stelle dell’e-commerce, mentre l’India sviluppava uno degli ecosistemi aziendali più vivaci del mondo. Ma non l’Africa che rappresenta oggi il 3% del PIL mondiale e attira meno dell’1% di capitale privato.

Se per Paul Kagame presidente del Ruanda, le piccole e medie imprese sono la “spina dorsale dell’economia africana”. Secondo l’African Youth Survey, invece quasi la metà dei giovani “imprenditori” nelle città africane si sarebbe “auto-impiegata” in modo casuale nelle attività più disparate (dalla pubblicità su Instagram alla riparazione di tetti) ed arriva a ipotizzare che molti di questi “auto-imprenditori” potrebbero essere semplicemente disoccupati “mascherati”.

kagame
Paul Kagame, presidente del Ruanda

Sta di fatto che oggi l’80% dell’occupazione nel continente è informale (non registrata e non regolamentata dallo stato).

Una ricerca di McKinsey, rivelerebbe che il fatturato totale delle aziende africane (escluso il Sudafrica) è “solo un terzo di quello che potrebbe essere”. E “Fortune” sottolinea come l’Africa sia l’unico continente dove non c’è nemmeno una delle 500 più grandi aziende al mondo.

“L’Africa ha bisogno di trasformarsi in un mercato unico più grande, qualcosa come quello che l’India sta cercando di fare”, sostiene Amit Jain capo del Centro per gli studi africani a Singapore . “Piccolo non è bello. È improduttivo” afferma Paul Collier dell’Università di Oxford nel suo “Poveri e Abbandonati”.

Cosa dovrebbero fare allora i leader africani? Per cogliere il futuro – scrive il settimanale – i leader africani devono rompere con ideologie obsolete e abbracciare la crescita e l’innovazione. Offre anche due suggerimenti in verità non così nuovi: abbandonare decenni di pessime abitudini che imitavano il peggio del capitalismo statale cinese e non fare più semplici “copia incolla” delle proposte dei tecnocrati della Banca Mondiale.

lavoro migranti

Ken Opalo della Georgetown University la chiama “low-ambition/mudding-through developmentalism”, che tradotto in parole semplici vorrebbe dire “navigare a vista” senza un obiettivo preciso. Sarebbe quello che – a suo dire – farebbero oggi la maggior parte dei leader africani.

Al di là dei punti di vista, delle analisi accurate, dei dati, degli stimoli e delle diverse legittime interpretazioni sul contenuto dello “Special Report” del settimanale inglese che in questi giorni stanno animando il dibattito, ci sono almeno due considerazioni su cui riflettere.

La Prima: generalizzare i 54 paesi del continente non è quasi mai una buona pratica. Gli analisti europei sono abituati a generalizzare sull’Europa, che ha anche una serie di paesi con culture e storie molto diverse.

Sappiamo bene che il continente africano è molto più complicato: democrazie in evoluzione che confinano con democrazie imperfette, che confinano con stati cleptocratici, che confinano con regimi che sottilmente “mimano” lo sviluppo, che confinano con giunte militari, che confinano con territori senza tetto ne legge.
Alcuni stati africani a volte sembrano incapaci di fare le cose che uno stato dovrebbe fare, mentre altri talvolta fanno cose che uno stato non dovrebbe mai fare.

La Seconda: gli analisti del mondo “sviluppato” tendono a fare affidamento su statistiche nominalmente paragonabili a quelle dei loro paesi. Ma le “statistiche africane” spesso somigliano a delle stime compilate da persone molto ben intenzionate ma con poche risorse (ad esempio la Repubblica Democratica Congo non fa un censimento da 40 anni). Anche se è corretto usarle – dato che l’alternativa sarebbero solo le congetture- è bene conoscerne i limiti.

Vista dai palazzi della City di Londra questa generalizzazione dell’Africa “per un pugno di dollari”, potrebbe dare l’impressione di portare con sé un soffio paternalistico.

E chi mai l’avrebbe immaginato che la “crescita alimentata da mercati aperti e capitalismo” potesse essere la “chiave inglese” per risolvere tutte le sfide dell’Africa?

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