Migranti etiopi e sogno – infranto – saudita

di Valentina Milani
migranti etiopi

Una recente indagine condotta da Amnesty International e confluita in un rapporto pubblicato la scorsa settimana, ha finalmente portato alla luce le drammatiche condizioni in cui versano i migranti etiopi che vengono incarcerati nelle prigioni saudite.

Le testimonianze raccolte parlano di donne, ragazze incinte e neo-mamme e i loro bambini tenuti ammassati in celle sovraffollate, detenuti incatenati l’uno all’altro e costretti a fare i loro bisogni sul pavimento. Stessa condizione degli uomini che si trovano a dover convivere con i propri escrementi per settimane, contando su scarsissime razioni di cibo. Il tutto senza alcuna assistenza medica, fattore drammatico se si pensa che molte donne sono state abusate durante il viaggio e molti uomini feriti anche da armi da fuoco.

Noi di Africa abbiamo realizzato un reportage raccogliendo diverse testimonianze di migranti etiopi appena rimpatriati ad Addis Abeba, dopo mesi di viaggio e di detenzione, presto sarà quindi possibile leggere le loro storie sulla nostra rivista. Nel frattempo, è però doveroso fare luce su una rotta migratoria davvero poco considerata: quella che vede migliaia di persone lasciare il Corno d’Africa al fine di coronare il sogno saudita, per poi però finire inesorabilmente nelle carceri dell’Arabia.

Un viaggio intrapreso, nel 2019, da 138.213 persone a fronte delle 110.699 che hanno attraversato il Mediterraneo, secondo quanto riportato dai dati IOM (International Organization for Migration). Il 92% di questi migranti sono etiopi: uomini, donne e ragazzini che si lasciano alle spalle le vaste zone rurali dell’Etiopia con la speranza di raggiungere la terra saudita, un luogo ai loro occhi così promettente da indurli ad attraversare un Paese in guerra come lo Yemen.

Il percorso si snoda infatti da alcune remote regioni etiopi (Tigray, Oromia, Amhara), ma anche dalla capitale Addis Abeba, verso tre principali punti di convoglio, affacciati sulla costa: Gibuti o la vicina Obock e Bossaso (Somalia). Chi opta per le due cittadine più settentrionali deve avventurarsi, per lo più a piedi, nel deserto della Dancalia per poi raggiungere lo Yemen via Mar Rosso con 6 ore di traversata, se tutto va bene. Chi invece passa per la Somalia deve fare i conti con il Golfo di Aden e almeno 24 ore su barche straripanti di un’umanità stremata. Percorsi che possono impiegare, in totale, poche settimane come qualche mese, dipende dalla disponibilità economica del migrante e dal grado di fortuna che veglia su di lui.

Chi sopravvive al viaggio, al mare, allo Yemen in guerra, ai centri di detenzione illegali yemeniti, al confine dell’Arabia Saudita costantemente sorvegliato da cecchini pronti a sparare, arriva sì, in terra saudita, ma viene inesorabilmente incarcerato e torturato. Le condizioni di detenzione annullano infatti qualsiasi briciola di dignità umana che le persone sopravvissute al percorso portano ancora con sé. Il tutto con uno scopo ben preciso: evitare che i migranti partano ancora. Così, chi viene catturato, dopo settimane di prigionia viene rispedito ad Addis Abeba con voli che atterrano in sordina su una pista secondaria dell’aeroporto di Bole International.

Contemporaneamente, però, migliaia di persone continuano a partire, complice la scarsa informazione, le menzogne che vengono raccontate loro dai collaboratori dei trafficanti e la speranza, la profonda speranza di una vita migliore.

*Presto il reportage completo su Africa Rivista.

(Valentina Giulia Milani)

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