Ma l’Africa esiste davvero?

di claudia
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di Fabrizio Floris

L’Africa è un continente così vasto e diversificato che alcuni autori come Touadì preferiscono parlare di Afriche, altri come Kapuściński sostengono che «a parte la sua denominazione geografica, l’Africa non esiste. […] è un continente troppo grande per poterlo descrivere; un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa».

L’Africa non è un soggetto teorico sovrano rispetto al quale, come racconta Chakrabarty, «tutte le altre storie diventano, in modo particolare, variazioni di una narrazione principale» è un soggetto subalterno perché tutta la sua storia, le sue storie, diventano variazioni della “storia dell’Europa”. Dal punto di vista economico una parte significativa della popolazione vive in condizione di deprivazione materiale causata da un’assenza di reddito che si associa alla scarsa presenza di servizi pubblici: in particolare scuola e sanità. Lo Stato nella maggior parte dei Paesi è contemporaneamente assente, per quanto riguarda l’erogazione di servizi, e oppressivo per quanto riguarda il controllo sulla popolazione.

Queste particolari condizioni possono essere considerate all’origine della presenza della criminalità organizzata in Africa. Infatti, i fenomeni di criminalità organizzata sono intrinsecamente intrecciati al tessuto politico, economico e sociale di quei Paesi nei quali la fragilità delle istituzioni statuali, l’esistenza di una scarna legislazione in materia, le difficoltà degli apparati deputati al contrasto lasciano ampi spazi di manovra alla proliferazione delle reti criminali. A sua volta questa situazione deriva sia da alcuni effetti della colonizzazione: mancanza di rappresentatività politica delle popolazioni locali, sfruttamento predatorio delle risorse naturali, mancata promozione di modelli di sviluppo economico inclusivi, sia da alcune difficoltà attuali: alti tassi di corruzione e nepotismo, discriminazione delle minoranze, disomogeneità nella redistribuzione della ricchezza e nella partecipazione popolare alla vita pubblica.

Permangono ovunque, anche se con gradi diversi, abusi di potere e appropriazione indebita delle risorse pubbliche da parte di esponenti apicali dei governi che approfittano della propria posizione all’interno del processo decisionale nazionale per perseguire obbiettivi personalistici. A queste dinamiche si sono aggiunte, nel corso della seconda metà del XX secolo, ulteriori lacerazioni sociali e politiche conseguenti a conflitti etnici, guerre civili e istanze secessioniste. In questo senso, l’instabilità e la distruzione del tessuto economico di regioni già fragili hanno contribuito a far crescere il ventaglio di opportunità delle reti criminali, soprattutto per quanto riguarda la fornitura di beni e servizi per la popolazione (mercato nero, contrabbando, mercenariato).

Si tratta di situazioni che continuano a permanere nelle regioni più vulnerabili di alcuni Paesi, nonostante l’impegno significativo e positivo di governi e organizzazioni internazionali. Secondo UNODC oltre a fragilità strutturali e storiche agisce in modo importante un elevato tasso di criminalità che si intreccia con diseguaglianza sociale, urbanizzazione (slum), alti livelli di disoccupazione nella popolazione giovanile, sistema giudiziario debole, corruzione, proliferazione incontrollata di armi, conflitti sociali e guerre civili. Tutte carenze che hanno favorito la crescita della criminalità comune e organizzata che, a sua volta, beneficia di condizioni di instabilità.

La criminalità organizzata è un ostacolo allo sviluppo, ma è anche un attore chiave nel promuovere e sostenere crisi umanitarie nelle aree di conflitto, dal momento che trae profitto da contesti caratterizzati da instabilità e caos. Come dimostrato dalle ricerche di UNODC le zone di conflitto sono particolarmente vulnerabili al traffico di esseri umani. Si crea in questi contesti una spirale negativa dove la debolezza degli Stati e la povertà creano le basi per il proliferare della criminalità che a sua volta indebolisce le istituzioni che dovrebbero combatterla. Lo Stato non esiste, è una costruzione importata che si gioca il suo spazio con il clan, l’etnia e in alcuni casi la religione. Non c’è una vicinanza di classe e neanche di pelle, ma la prossimità è fatta di terra, di antenati e sete di potere. Per vincere, Stato, clan, religione, devono far entrare questa loro sete nella sete quotidiana della gente che cammina senza sosta per un lavoro a giornata, che si spacca la schiena nei campi per una pannocchia di mais, che si muove lungo i deserti con le capre alla ricerca dell’acqua.

Questa arsura è nello stesso tempo immanente e trascendente, imprevedibile nei suoi modi e nei suoi risultati: può stare sia nella ragione che nella ricerca di ciò che si ritiene giusto. Se questa contesa viene inglobata o infiltrata da elementi criminali, si crea un’identificazione pericolosissima che rende queste organizzazioni un vero anti-stato, anzi la vera istituzione di un territorio. Ed è all’interno di queste aree di instabilità che si è sviluppato il primo, grande business illegale del continente: il traffico d’armi. Seguito dal traffico di droga e di esseri umani: perché se una rotta illegale funziona le organizzazioni criminali la utilizzano per far passare anche altre attività.

Per approfondimenti, segnaliamo il libro dell’autore, Fabrizio Floris: Il traffico delle vite. La tratta, lo sfruttamento e le organizzazioni criminali (Franco Angeli Edizioni)

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