Le femministe di Dakar chiedono giustizia per Louise

di Stefania Ragusa

Dakar, Piazza della Nazione, sabato 3 luglio. È una mattina assolata e umida. Tutt’attorno si notano gruppi di polizia sparsi e al centro decine di donne, tutte vestite di bianco e di viola. Sulle magliette si legge l’hashtag #justicepourlouise, “giustizia per Louise”. Tra le mani cartelli con messaggi inequivocabili: “stanche degli stupri”, “il patriarcato ci uccide”, “la vergogna deve cambiare campo”, “l’abito non giustifica lo stupro”.

Le donne che chiedono giustizia per Louise sono attiviste femministe senegalesi, parte del collettivo che, in collaborazione con differenti associazioni in difesa dei diritti umani, ha organizzato il sit-in. Louise, 15 anni, è al centro di una vicenda di cronaca che da giorni sta sollevando molte polemiche. La ragazza ha denunciato il presunto stupro e la presunta diffusione di un video dello stesso da parte di un diciannovenne, figlio di un celebre giornalista senegalese, che a sua volta era stato condannato per violenza sessuale.

3 stupri ogni 24 ore Il Senegal non ha i numeri paurosi di altri Paesi, ma certamente non è immune da violenza. Secondo le statistiche vi si registra una media di 3 strupri al giorno. Aissatou Sene, membro del collettivo per la protezione e la promozione dei diritti delle donne ha dichiarato che la manifestazione è un’occasione per dare voce non solo al caso Louise ma anche per ricordare tutti i casi di violenza sessuale già avvenuti e quelli che, purtroppo, avverranno. Louise è solo l’ultima vittima di quello che sembra essere un problema più radicato. In una società dove spesso le donne hanno timore di denunciare, per paura delle ripercussioni familiari e sociali, questa manifestazione vuole lanciare un messaggio chiaro: “Non siete sole, sarete credute e sarete supportate nella vostra battaglia per la giustizia”.

Khaira Thiam, ©Chiara Barison

Noppi wu ma (Non sto zitta/o). “In Senegal, la questione dello stupro, nonostante la legge sull’inasprimento della pena datata gennaio 2020, è ancora un argomento tabù, che purtroppo tocca un numero importante di donne”, dichiara Khaira Thiam, psicologa e femminista, parlando con Africa. “Siamo qui per tutte quelle donne che non hanno il coraggio di denunciare e che si trovano oppresse dalla vergogna e dal peso sociale che tende spesso a preservare l’onorabilità degli aggressori a discapito delle vittime”. Scendere in piazza è stata una manifestazione coraggiosa in un momento in cui, in Senegal, i gruppi femministi sono presi di mira, attraverso minacce, offese ed insulti. Di ieri l’episodio, grave ed inquietante, della manomissione a scopo denigratorio di una delle foto de sit-in. Un chiaro segno di sabotaggio e di attacco alle femministe che hanno prontamente denunciato l’accaduto tramite i social. “Dal momento in cui mettiamo sulla pubblica piazza argomenti che la società e la cultura patriarcale vogliono tenere lontano dal dibattito pubblico, saremo attaccate. In un certo senso, facciamo pressione anche solo con la nostra presenza e con le nostre modalità di affrontare questi argomenti”, sottolinea Khaira Thiam. “Attraverso le nostre azioni stiamo sradicando certi privilegi. E lo stupro, in alcuni contesti, può essere considerato un privilegio. Oggi quello che chiediamo è di essere visibili, di essere ascoltate e di includere nel dibattito pubblico quei temi che ci interessano direttamente”.

Sister Lb, © Chiara Barison

Jigéen (donna) Questo il titolo della canzone, colonna sonora della manifestazione e omaggio a tutte le donne. L’autrice, Sister Lb, artista rap e attivista, era in piazza anche lei. “I detrattori del femminismo non hanno capito realmente cosa sia il femminismo ed è qui che gli artisti dovrebbero intervenire, facendo capire che si tratta di una lotta universale”, ha detto parlando con Africa. “Per me sono gli uomini che avrebbero dovuto essere in prima linea al sit-in perché se una donna soffre, l’uomo soffrirà in conseguenza. Ogni donna violentata è la figlia o la sorella di un uomo. Accade a casa tua e non serve girare le spalle perché non è tua figlia o tua nipote, prima o poi accadrà se nessuno decide di cambiare le cose, denunciando”. Qualche uomo in realtà c’era al sit-in, ma “qualche” è decisamente poco di fronte a una questione così grande. La lotta, intanto, continua.

(testo Chiara Barison, foto Alexandra Bonnefoy)

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