L’africano che ha conquistato il Giappone

di claudia

L’incredibile storia di uno studente del Benin diventato a Tokyo una star televisiva. Rufin Idossou Zomahoun ha lasciato l’Africa da ragazzino per studiare a Pechino. Ottenuto il diploma in sinologia, si è trasferito in Giappone, dove ha conquistato la popolarità in un modo inaspettato. Il suo successo non è un colpo di fortuna, ma frutto di tenacia, intelligenza e talento

di Marco Trovato – foto di Jérémie Souteyrat / Luz

Per strada risponde ai saluti sfoderando un sorriso sincero. Anche quando è stanco e nervoso. La gentilezza è un suo tratto distintivo. Irrinunciabile. Se lo fermano per chiedergli l’autografo o un selfie, trova sempre il tempo per due chiacchiere coi suoi ammiratori. Il successo non gli ha dato alla testa. «Devo molto a questo Paese. Il Giappone è la mia patria adottiva. Mi sento talmente parte di questa nazione che aspiro a diventarne il primo ministro», scherza Rufin Idossou Zomahoun. Ma forse ci crede davvero. Del resto, la sua vita è un romanzo d’avventura pieno di colpi di scena.

Origini umili

Ancora ragazzino, partì da un piccolo villaggio del Golfo di Guinea per approdare dalla parte opposta del globo. Ha fatto mille lavori: autista, interprete, giardiniere, operaio, fattorino, uomo di spettacolo, scrittore. Oggi fa l’ambasciatore. Ma anche l’opinionista. I conduttori delle tivù fanno a gara per averlo ospite nei loro programmi. Conosce alla perfezione sette lingue (mina, yoruba, fon, inglese, francese, mandarino, giapponese). Ma sa parlare soprattutto al cuore delle persone. Il pubblico lo ama. In tutto il Paese del Sol Levante è una vera star.

«Se mi guardo indietro e ripenso alle tappe del mio percorso personale mi vengono i brividi», ammette Zomahoun, 56 anni, che indossa sempre tunica e copricapo tradizionali del suo Paese di origine, il Benin. «Quando sono nato io, nel 1964, si chiamava ancora Dahomey e da pochi anni si era liberato dall’occupazione coloniale della Francia iniziata nel 1894 – ricorda Zomahoun –. Il Paese era poverissimo e io provenivo da un’umile famiglia rurale. La gran parte dei bambini non sapeva neppure leggere e scrivere in francese. Gli insegnanti erano perennemente in sciopero perché non ricevevano gli stipendi. Le università erano pressoché inesistenti».

Gli studi a Pechino

L’unica possibilità per continuare a studiare era espatriare. «I prestigiosi atenei dell’Europa erano inarrivabili, riservati ai rampolli della nomenklatura del regime socialista. I ragazzi normali dovevano sperare in una borsa di studio offerta dai compagni sovietici, nordcoreani, cubani o cinesi».

Nel 1987 il destino sorrise a Zomahoun, all’epoca ventitreenne, o lo indirizzò verso la Repubblica Popolare Cinese per studiare sinologia. Il viaggio per Pechino durò tre giorni, il percorso di studi ben sette anni. «La Cina era molto ospitale e premurosa nei riguardi di noi studenti africani. Ci consideravano dei fratelli oppressi dall’imperialismo capitalista. Venivamo curati, rispettati e viziati. Per impratichirmi con la lingua mi davo da fare con lavoretti serali». Gli sforzi diedero frutti: Zomahoun divenne il primo sinologo nero.

«Il clima per noi in Cina cominciò a cambiare alla fine degli anni Ottanta, alla vigilia delle proteste di piazza Tiennamen». Gli universitari cinesi consideravano i loro compagni neri dei privilegiati, profittatori, simpatizzanti del regime di Deng Xiaoping. Ci furono attacchi xenofobi ed episodi di razzismo. Gli africani manifestarono la loro rabbia. La convivenza si fece difficile. Zomahoun decise di cambiare aria.

Anni duri a Tokyo

Con l’aiuto di un compagno giapponese riuscì a trovare una via di fuga a Tokyo. «Malgrado tutto ho un ricordo pieno di affetto della Cina. Gli inizi in Giappone furono molto duri. La lingua sembrava un ostacolo insormontabile. La mattina seguivo quattro ore di lezione, al pomeriggio mi mettevo a lavorare. Facevo anche tre mestieri diversi e tornavo a casa alle quattro di notte, esausto. Un giorno, ero talmente stanco che in fabbrica ebbi un infortunio. Rischiai di perdere la sinistra, mi tranciai due dita». La vita in Giappone era molto cara, ma i soldi dell’assicurazione permisero a Zomahoun di iscriversi in una delle migliori università di Tokyo, la Sophia University, dove si laureò nel 1999 in sociologia. Fu l’anno della svolta. «Una sera, mentre rientravo a casa dopo l’ennesimo lavoro, venni avvicinato da un tizio. Si presentò come un impresario televisivo. Mi propose di partecipare a un programma che sarebbe andato in onda sul canale Tbs. Era un varietà con protagonisti cento immigrati di varie nazionalità. Pagavano 120 dollari a puntata. Accettai al volo».

Cuore e testa

Nelle intenzioni degli sceneggiatori, Rufin avrebbe dovuto essere un personaggio folcloristico, esotico, ingaggiato per dare un po’ di colore al programma. Ma il nostro uomo aveva carisma, intelligenza, straordinarie doti comunicative, talento innato per lo show televisivo. Conquistò il pubblico con la sua disarmante sincerità, la sua travolgente simpatia, la sua esuberante personalità. Soprattutto con la sua parlantina a raffica, incontenibile, squillante e sopra le righe. «Avrei dovuto andare in onda poche puntate, non mi lasciarono più andare via».

Stregò pure il celebre attore-conduttore Takeshi Kitano, un idolo in Giappone, che lo volle arruolare per altri programmi di successo. Zomahoun divenne un volto televisivo popolare. Una stella dello spettacolo, acclamato dalla critica e dalla gente.  «Approfittai della popolarità per contrastare gli stereotipi sui neri. I giapponesi credevano che l’Africa fosse abitata da popoli selvaggi, primitivi, inetti. Io demolivo i cliché e raccontavo come i metalli strategici che alimentavano l’industria asiatica dell’hi-tech e delle auto provenissero dal mio continente».

Al culmine della popolarità, nel 1999, Rufin pubblicò un libro, Il Giappone di Zomahoun, che divenne un best seller: più di trecentomila copie vendute. Anche il sequel Zomahoun urla molto è andato a ruba in libreria.

Un ponte con l’Africa

Coi soldi guadagnati ha finanziato progetti di sviluppo in Benin. Ha fatto costruire scuole, scavare pozzi, inviare materiali didattici per gli studenti più poveri. Il suo Paese natale gli ha conferito la massima onorificenza e lo ha investito del ruolo di inviato speciale e, dal 2012, di ambasciatore.

Oggi Zomahoun abita a Tokyo con la moglie nella residenza riservata ai diplomatici, ma continua a pagare l’affitto del monolocale dove ha vissuto per una vita. «Sono troppo affezionato a quel buco. Vi ho lasciato i miei libri e il cuore». Benché possa farne a meno, continua a frequentare i bagni pubblici, un’abitudine acquisita nei lunghi anni vissuti in un appartamento senza doccia. «Adoro l’atmosfera che si respira in quei luoghi. La gente chiacchiera, si confida. Tra una doccia e l’altra si stringono amicizie che durano una vita».

Ogni volta che può, torna nella sua Africa. Per sbrigare lavori al ministero degli Affari esteri, ritrovare amici e familiari, concepire nuovi progetti di cooperazione. «Sono figlio del Benin e del Giappone. Mi piace essere considerato un ponte tra questi due mondi, apparentemente distanti anni luce e inconciliabili, che possono arricchirsi delle reciproche differenze». Zomahoun incarna la commistione tra il calore e la vitalità dell’Africa con la saggezza e il dinamismo del Giappone. E la sua storia di successo è fonte di ispirazione per tanti giovani connazionali.

(Marco Trovato – foto di Jérémie Souteyrat / Luz )

Questo articolo è uscito sul numero 6/2020 della rivista. Per acquistare una copia della rivista, clicca qui, o visita l’e-shop.

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