Derive, di Pascal Manoukian

di AFRICA
Derive, di Pascal Manoukian

«Tutte le vite che ancora oggi continuano ad andare alla deriva», secondo la conclusione di questo romanzo, sono quelle dei migranti – economici, ambientali, in cerca d’asilo o in fuga da una guerra, non importa – come Virgil, Chanchal e Assan. L’occhio dell’autore è ben aperto sull’attualità, ma ha scelto di ambientare la sua opera nel 1991-92, cioè agli inizi dell’ondata migratoria verso l’Europa che da allora non ha cessato di crescere. E lo fa mostrando come tutti gli elementi del panorama che abbiamo imparato a conoscere oggi ci fossero già tutti, solo in forma quantitativamente più ridotta e organizzativamente embrionale: dai passeur alle “giungle” (di Calais e altre), dai kapò alla questione della clandestinità, dalle gerarchie violente che si stabiliscono in seno all’ambiente stesso degli immigrati all’emergere del jihadismo.

Quelli erano poi gli anni della dissoluzione dell’Unione Sovietica (infatti Virgil viene dalla Moldavia) e della caduta di Siad Barre (il primo incontro che facciamo con Assan, insieme alla figlia Iman, avviene nella cattedrale di Mogadiscio, già sventrata dopo l’assassino del vescovo Pietro Salvatore Colombo); quanto a Chanchal, appena maggiorenne, è il figlio predestinato dalla sua famiglia, come molti altri bangladesi, ad andare nel mondo in cerca di fortuna. I tre – quattro con l’adolescente Iman, che il padre veste da maschio (ma poi lei «si chiese come avrebbe fatto a pisciare come un maschio») – sono condotti dal caso a intrecciare le loro miserabili vite gli uni con gli altri nella periferia di Parigi, fino a un epilogo che naturalmente non riveleremo.

Manoukian, di origini armene – uscito quindi da una famiglia che ha conosciuto vicissitudini analoghe a quelle dei suoi protagonisti –, ha costruito una storia dura, che morde il lettore, a tratti lo stordisce di odori e di umori, e lo fa stare dalla parte dei tre “naufraghi”, senza con questo volerlo indurre a simpatia verso tutto l’ambiente di immigrati in cui i tre/quattro si muovono. E, essendo un reporter di guerra di lunga esperienza (fra l’altro ex direttore dell’agenzia Capa Presse), ha voluto arricchire la sua prima opera di finzione con annotazioni, spiegazioni, brevi digressioni culturali e storiche, che conferiscono alla sua scrittura una cifra particolare.

Volendo trovare il pelo nell’uovo, rimane qualche piccolo dubbio. Per esempio un paio di anacronismi: nel 1991 l’Eritrea, da cui transitano i protagonisti somali della storia prima di sbarcare a Lampedusa, non era ancora «una repubblica nata da poco» (lo diventerà due anni dopo); e la menzione dei droni tra i dispositivi di controllo sulle rotte di Virgil, alla stregua di «guardie armate, videocamere, filo spinato, recinti elettrici, motovedette, visori a infrarossi», quando ci risulta che all’epoca debuttasse il loro impiego nella Guerra del Golfo. Dal punto di vista più interno al testo, lascia un po’ perplessi l’apprendimento del francese da autodidatta, da parte di Assan durante il viaggio, su un dizionario (anche se è vero che il nostro somalo già parla l’italiano); parimenti, appaiono troppo elaborate le conversazioni in francese tra immigrati, di provenienze disparate, solo da pochi giorni in Francia. Licenze letterarie, certamente (al cinema si vede ben di peggio), ma che si fanno un po’ notare, in un testo realistico come questo – che peraltro non è privo di momenti simbolici e di tutta una sua poesia.

Con il suo primo romanzo, Manoukian ha vinto il premio letterario belga “Première” e quello francese “Solidarité”.

66thand2nd, 2016, pp. 237, € 17,00

(Pier Maria Mazzola)Derive, di Pascal Manoukian

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