Arte | Storia e Storie. Trent’anni di Revue Noire

di Stefania Ragusa

Quando si parla di arte africana e della sua “scoperta” da parte dell’Occidente, spesso si cita come punto di partenza una mostra che ebbe luogo a Parigi nel 1989, un anno di grandi eventi e festeggiamenti per via del centenario della Rivoluzione Francese. Organizzata  al Centre Pompidou e curata da Jean-Hubert Martin, Magiciens de la Terre ha dato visibilità a figure come Bodys Isek Kingelez, Chéri Samba o Frédéric Bruly Bouabré. A quella stessa esposizione, tuttavia, va attribuito anche il demerito di avere avvolto in una patina di primitivismo la produzione artistica africana contemporanea, avvalorando l’idea che essa non possa essere che brut: spontanea, istintiva, libera da vincoli accademica, folkloristica.

Nella ville lumière però, in quegli stessi anni, stava accadendo qualcosa di molto interessante e di segno opposto. Un gruppo eclettico di intellettuali cosmopoliti e creativi, stanco delle rappresentazioni esotiche del continente, consapevole del fermento che attraversava le città africane e deluso dal non aver potuto realizzare, ancora nel 1989, una mostra dedicata alle sue molteplici espressioni, decise di dar vita a una rivista che avrebbe raccontato appunto un’altra storia e altre storie, tracciando un solco nella percezione occidentale dell’arte e della creatività africane. L’esposizione mancata avrebbe dovuto intitolarsi Dans la Ville Noire. Il nome prescelto per la pubblicazione fu Revue Noire. Il “gruppo” era formato da Simon Njami, Jean-Loup Pivin, Pascal Marin Saint Leon, Bruno Tilliette e, successivamente, N’Goné Fall. Il primo numero (nell’immagine in apertura, un particolare della copertina) uscì nel 1991. Conteneva una monografia dello scultore senegalese Ousmane Sow e una sugli artisti neri attivi a Londra.

«Nell’anno in cui uscì il primo numero della rivista partecipavo a una tavola rotonda con  Jan Hoet, l’allora direttore artistico della Documenta di Kassel (l’appuntamento di arte contemporanea più prestigioso al mondo, ndr)», ci ha raccontato Simon Njami, che è ormai un noto e affermato curatore e scrittore, ma era allora agli inizi. «A un certo punto lui disse che non esistevano artisti africani. Mi inalberai col tipico ardore della giovinezza e lo trattai da imbecille, mettendogli davanti il primo numero della rivista. Passarono tre mesi e Hoet mi richiamò: voleva i contatti di tre degli artisti di cui parlavamo in quel numero. Voleva invitarli a Kassel. Ci andarono». Uno di loro, per inciso, era proprio Ousmane Sow, l’ammiratore di Rodin, Giacometti e Claudel, riconosciuto oggi internazionalmente come scultore di altissima levatura.

Revue Noire ha cessato le pubblicazioni cartacee nel 2001, pur continuando a esistere come casa editrice e rivista on line. La decisione è stata sofferta ma imposta dalla necessità di far quadrare i conti. In occasione di quello che avrebbe dovuto essere il suo trentesimo anno di vita, i fondatori hanno deciso di pubblicare un libro che, sotto la forma di un collage che raggruppa immagini, copertine, testimonianze, ne ripercorre la storia. Si intitola, semplicemente, Revue Noire. Histoire, histoires ed esce in Francia proprio in questi giorni. Si tratta di un volume bello visivamente, ma anche di un documento prezioso, che permette di ricostruire un decennio intenso di ricerca, riflessione ed evoluzione estetica e relazionale e di un contributo determinante nella comprensione e nella valorizzazione di un’idea di arte africana diametralmente opposta a quella che, ahimé, in molti contesti rimane dominante.

In un’intervista  rilasciata a chi scrive qualche anno fa, Njami chiariva proprio quale fosse questa differenza di visioni: « Sono due, contrapposte: una “magica” e una contemporanea. Due visioni dell’arte che corrispondono a due visioni dell’Africa. La prima è ereditata da Magiciens de la Terre, e considera l’arte africana avvolta da un’aurea mistica e primitiva. Per essere ancora più chiari: a Parigi Jean-Hubert Martin portò persone che facevano bassorilievi nella sabbia o costruivano i sarcofaghi, elevandole al ruolo di artisti concettuali. Per me questi non sono artisti: possono essere artigiani, spiriti religiosi, ma non artisti. L’artista deve avere intenzioni artistiche ed esserne consapevole. Magiciens de la Terre è stato un grande successo ma ha dato rilievo a tutto quello che personalmente non mi interessa. L’altra visione è la mia, quella che non considera l’arte africana contemporanea come una categoria a parte, ma usa africano in senso storico e geografico. Io guardo gli artisti sempre con gli stessi occhiali, non li cambio in base ai continenti. Revue Noire è stato un mezzo per veicolare questa visione».

Se le pubblicazioni non fossero state interrotte, come sarebbe la Revue Noire oggi?  «Una rivista interessata a tutto il mondo», ci ha detto Jean-Loup Pivin. «Nel 2001, quando per ragioni essenzialmente economiche abbiamo dovuto interrompere le pubblicazioni, questo in realtà era già il nostro progetto. Avevamo già una decina di comitati editoriali dislocati in varie parti del pianeta ed eravamo sul punto di partire. Per noi arte africana contemporanea non ha mai significato “uno stile” o un “movimento”. La nostra vittoria è stata quando il primo africano è stato invitato alla Documenta di Kassel o alla Biennale di Venezia. C’è arte contemporanea in Africa. Ma probabilmente non arte africana contemporanea. Molti articoli pubblicati negli anno ’90 sulla Revue Noire insistevano già su questo concetto. Parlare di arte africana contemporanea è improprio. Ci sono però artisti contemporanei e creativi che vivono in Africa e sono africani. Queste persone sono in relazione con gli artisti di tutto il mondo e guardano nella medesima direzione».

(Stefania Ragusa)

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