Africa ferita: la lotta contro le mutilazioni genitali femminili

di Marco Trovato

Oggi è la Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili (Mgf). Si tratta di una piaga che affligge 130 milioni di rdonne in tutto il mondo, specie in Africa. Le attività di contrasto in due regioni chiave: Sudan e Somaliland. Le iniziative di sensibilizzazione in Italia

Le mutilazioni genitali femminili (Mgf), come l’infibulazione e l’escissione della clitoride, sono pratiche devastanti, dal punto di vista fisico e psicologico, a cui sono sottoposte almeno 130 milioni di donne. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che 3 milioni di bambine ne siano a rischio ogni anno. L’Africa sub-sahariana è una delle regioni al mondo in cui sono più diffuse. In occasione della Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, siamo andati a indagare su cosa sta accadendo in due regioni in cui queste pratiche sono particolarmente radicate: Sudan e Somalia.

Sudan, la legge non basta

A quasi un anno dall’approvazione della legge che ha messo al bando le mutilazioni genitali in Sudan (punibili ora con la prigione fino a tre anni e una multa), i passi avanti registrati sono stati meno ampi di quanto si sperasse. In un Paese in cui l’88% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subito una qualche forma di mutilazione genitale, secondo il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), d’altra parte il nuovo strumento legale rappresenta effettivamente una svolta importantissima, ma non la fine del problema. La nuova legge è diventata esecutiva il 10 luglio 2020, con la ratifica finale, a tre mesi di distanza dalla sua approvazione. Nel periodo transitorio, le persone sorprese a eseguire Mgf, come è noto, rischiavano solo la confisca delle attrezzature mediche e una sorta di formazione rieducativa ad hoc.

Ma la pandemia ha modificato repentinamente lo scenario. Le scuole hanno chiuso. L’attenzione dei sanitari e degli attivisti si è spostata altrove e molte famiglie hanno approfittato del momento per sottoporre le figlie a questo rito di passaggio che – non dimentichiamolo – è vissuto come migliorativo da parte di chi lo pratica. L’emergenza legata al coronavirus avrebbe in altre parole “anticipato” la cosiddetta stagione delle Mgf: ogni estate, in Sudan e in Somalia, in coincidenza con la chiusura delle scuole, molte famiglie conducono le bambine nei contesti rurali dove le modificazioni vengono messe in atto.

Sufian Abdul-Mouty, un rappresentante dell’Unfpa in Sudan, osserva che pur in assenza di “dati precisi” sui casi di Mgf dall’inizio della pandemia a marzo, vari rapporti aneddotici mostrano un aumento delle segnalazioni ricevute di casi a Khartoum, la capitale, e in altri stati come Jazeera e White Nile. «La difesa e la consapevolezza sull’applicazione della legge possono causare un aumento della pratica a causa della paura dell’esclusione sociale o dello stigma sociale per non conformarsi alla norma, che può essere più forte di la paura delle multe e della reclusione», ha spiegato in un’intervista. «Il governo deve essere molto attento, concentrandosi prima su un’intensa consapevolezza della comunità per aumentare l’accettazione e la richiesta della legge».

La vergogna della diversità

Infatti c’è ancora un grande stigma verso le ragazze che non hanno subito Mgf. Se un uomo scopre che la futura moglie non è stata sottoposta alla modificazione considerata appropriata nella sua comunità (le modificazioni sono di vari tipi) può accadere che provi a restituirla alla sua famiglia e/o le chieda di porre rimedio a quella che viene percepita come una mancanza.

Aumentare la consapevolezza del danno permanente provocato dalle Mgf è particolarmente importante quindi per dissipare i miti sulla pratica. Ma con i mezzi di informazione dominati attualmente dagli aggiornamenti pandemici, è difficile trovare spazi adeguati. Ogni singola cosa riguarda il coronavirus, e questo ha ridotto lo spazio per tutti gli altri programmi e tutti gli altri messaggi. Gli attivisti dovrebbero lavorare a stretto contatto con i media, le Ong, le scuole e le comunità. I genitori andrebbero sostenuti e non criminalizzati.

Ma le mutilazioni genitali, ahimé, non sono materia inclusa nel programma scolastico nazionale, osserva Nahid Jabralla, fondatrice e direttrice del Centro Seema per la formazione e la protezione delle donne e dei diritti dei bambini. «La fine delle Mgf non è solo una questione di legge. Abbiamo bisogno di meccanismi efficienti, abbiamo bisogno di risorse, abbiamo bisogno di partnership adeguate che includano enti governativi, società civile, organizzazioni basate sulla comunità, persone sul campo, attori internazionali (agenzie delle Nazioni Unite e altre ONG). Dobbiamo andare avanti e spingere per questo, prendendo l’iniziativa – e coinvolgendo le istituzioni accademiche». Un altro problema segnalato dagli addetti ai lavori è la mancanza di dati e ricerche ufficiali che consentirebbero la mappatura dei rischi e aiuterebbero a individuare le aree con i più alti tassi di pratica. Nonostante gli ostacoli, il clima tra gli attivisti rimane positivo. La legge è il primo passo. Senza la legge le altre misure (formazione, educazione, statistica…) sarebbero state inimmaginabili. Il Covid-19 ha rallentato il piano di marcia, ma non lo ha fermato

Difficoltà in Somaliland

Nel Somaliland, Paese autodichiaratosi indipendente ma non riconosciuto dalla comunità internazionale, il 98% delle donne tra 15 e 49 ha subito una mutilazione genitale femminile (Mgf). Gli sforzi globali per sradicare questa antichissima e pericolosissima tradizione sono in corso da decenni da parte delle organizzazioni internazionali e si iniziano a vedere i primi, graduali, successi.

Proprio in Somaliland (ma anche in Somalia, Kenya e Guinea), l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Hrp (il programma speciale delle Nazioni Unite di ricerca, sviluppo e formazione alla ricerca sulla riproduzione umana) stanno supportando, secondo quanto si legge in un rapporto pubblicato ieri dall’Oms in occasione della Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili, i partner nazionali per rafforzare la comunicazione degli operatori sanitari con i pazienti al fine di prevenire le Mgf e la cura di chi ha subito le mutilazioni.

“La comunicazione centrata sulla persona è una componente chiave dell’assistenza sanitaria di qualità e dei diritti umani e siamo orgogliosi di far parte di questa nuova formazione per responsabilizzare ostetriche e infermieri nelle loro comunità – ha affermato Mamunur Rahman Malik, rappresentante dell’Oms in Somalia -. Comprendere la prospettiva unica e il contesto culturale di ogni paziente e lavorare attraverso soluzioni condivise è un approccio a lungo termine per sostenere il graduale abbandono delle Mgf: un impegno nell’ambito dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e un elemento centrale della copertura sanitaria universale”.

Le ostetriche e gli infermieri del Somaliland hanno una doppia prospettiva sulle Mgf. Al lavoro, vedono ragazze e donne che vivono con le conseguenze sanitarie e psicologiche di questa pratica dannosa. Allo stesso tempo, in quanto membri della comunità, comprendono le norme sociali che sostengono la Mgf come un rito di passaggio. Il programma di Oms e Hrp sfrutta proprio questa doppia doppia prospettiva. «Utilizzando metodi di comunicazione interattivi basati su teorie comportamentali – spiegano i responsabili dell’Oms -, questo nuovo programma di formazione aiuta gli operatori sanitari a comunicare in modo sensibile ed efficace con i loro pazienti convincendoli ad abbandonare le Mgf”.

“Con l’assistenza centrata sulla persona, ci sono sempre due esperti nella stanza: uno è il paziente e uno è l’operatore sanitario. Sono allo stesso livello – spiega Fardawsa Cisman, specialista in salute pubblica e salute riproduttiva che lavora presso il ministero della Salute e dello Sviluppo in Somaliland -. L’operatore sanitario dispone di molte informazioni relative alle Mgf. Chi sta visitando la clinica medica ha molte informazioni su se stesso e sui modi pratici in cui viene effettuata la Mgf nella comunità”. Fardawsa ha recentemente completato la nuova formazione per diventare lei stessa un’istruttrice. Lei e suo marito sono determinati a non praticare le Mgf sulle loro tre figlie.

Purtroppo la pandemia di Covid-19 ha rallentato i programmi di intervento. I sanitari si sono dovuti concentrare sulla nuova emergenza e molti fondi sono stati dirottati nella battaglia contro il coronavirus. Muna Abdi, principal investigator in Somaliland, è però determinata a continuare lo studio: “Ho pensato tra me e me: non possiamo fermare tutto per paura di questa pandemia. Dobbiamo accettare la situazione e trovare una via d’uscita, proteggendoci”.

La partnership è stata fondamentale: Muna e il suo team di ricercatori locali hanno lavorato a stretto contatto con gli uffici nazionali e regionali dell’Oms e i colleghi dell’Hrp, insieme al ministero della Salute. In team hanno valutato il rischio e hanno sviluppato un processo per adattare il programma alle nuove norme di sicurezza.

Le misure di prevenzione Covid-19 sono state integrate nel programma di formazione per operatori sanitari e raccoglitori di dati, sostenendo infine gli sforzi nazionali per espandere l’educazione alla salute pubblica e l’accesso ai dispositivi di protezione individuale nelle strutture sanitarie. Sono stati condotti workshop virtuali quando la formazione faccia a faccia non era possibile.

“Abbiamo adattato e completato con successo la formazione iniziale e la raccolta dei dati. In tutto il nostro team di ricerca, i partecipanti allo studio, i clienti e gli operatori sanitari, non abbiamo avuto casi di Covid-19”, ha spiegato Muna, giustamente orgogliosa.

“La comunicazione centrata sulla persona non è qualcosa che iniziamo oggi e vediamo cambiamenti domani – conclude Fardawsa -. Ha bisogno di progettazione e discussione con le comunità. Cambiare il futuro per le Mgf è il nostro desiderio, ma ha una lunga visione”.

Le iniziative in Italia

In occasione della Giornata contro le Mutilazioni Genitali Femminili, Amref Health Africa presenta il nuovo progetto “P-Act”, finanziato dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (Fami), del Ministero dell’Interno. Il progetto “P-Act: Percorsi di Attivazione Contro il Taglio dei diritti” ha come obiettivo generale quello di rafforzare la prevenzione ed il contrasto alla violenza di genere rappresentata dalle Mutilazioni Genitali Femminili nei confronti dei minori stranieri attraverso appropriate azioni di sistema.

Il 6 febbraio, Nosotras Onlus organizza un incontro online, gratuito ma con iscrizione obbligatoria, dal titolo “Uniamoci, formiamoci e agiamo. Obiettivo: mettere fine alle Mgf”. L’iniziativa parte dalla proposta dell’Inter-African Committee rivolta ai suoi affiliati di rilanciare giornate di consapevolezza sul tema delle Mutilazioni Genitali Femminili (Mgf). É dal 2004, diciassette anni, che l’Inter-African Committee, comitato di organizzazioni ed enti africani che da oltre trenta anni si occupano di contrasto alle Mutilazioni Genitali Femminili, propone alla sua rete, di cui Nosotras Onlus fa parte, il tema di discussione internazionale.

Il 6 febbraio, si terrà il convegno Mgf. È vicino ciò che sembra lontano”. L’evento è organizzato dal Comune di Reggio nell’Emilia in collaborazione con il Servizio Sanitario Regionale Emilia-Romagna e l’Università degli Studi di Milano Bicocca, e con il patrocinio di Unimore (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia).

In occasione della Giornata, ActionAid lancia il progetto Chain, avviato lo scorso settembre con l’obiettivo di rafforzare, in cinque paesi europei, fra cui l’Italia, la prevenzione, la protezione e il sostegno a donne e ragazze esposte al rischio delle Mgf. Attraverso incontri di formazione e percorsi di consapevolezza sui propri diritti, si restituisce un ruolo centrale alle comunità maggiormente a rischio violazioni per contrastare tali pratiche, dando voce a livello politico alle istanze e ai bisogni delle donne e delle ragazze colpite da queste due forme di violenza.

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