23/12/14 – Centrafrica – Dopo la guerra civile è ancora caos

di AFRICA

 

A un anno dalla fine della terza guerra civile che ha devastato la Repubblica Centrafricana, nella capitale Bangui regna una momentanea calma. Le tensioni restano anche dopo la firma del cessate il fuoco dello scorso luglio e la presenza di truppe internazionali in tutto il Paese.

Il personale di prima emergenza di Medici Senza Frontiere che opera nell’ospedale di Bangui non ha mai un momento libero. Come spiega Marine Monet. tra i medici di MSF:“Spesso ci arrivano nello stesso momento due, tre pazienti insieme. In questo momento la situazione è più calma, ma abbiamo pazienti con ferite d’arma da fuoco o da lama tutti i giorni”.

Le tracce lasciate dal colpo di Stato del 2013 e dal successivo massacro della popolazione sono ancora visibili. Gli uomini del gruppo Seleka, a maggioranza musulmana, guidato da Michel Djotodia sono stati autori di azioni feroci contro la popolazione non musulmana.

Sono nate, così, nella comunità cristiana delle milizie di autodifesa. Come gli anti- Balaka, che una volta avuto la meglio sui Seleka si sono scagliati contro la popolazione civile musulmana. Il risultato è stata una vera carneficina. 5000 i morti e più di 800.000 sfollati. Questo il bilancio del conflitto.

Parte della comunità musulmana è stata costretta a spostarsi verso l’est della capitale, mentre la maggioranza non musulmana si è concentrata nell’area occidentale di Bangui.

Il campo profughi di M’Poko allestito nei pressi dell’aeroporto della città, è arrivato a ospitare fino a 100.000 persone nei giorni più caldi del conflitto. La maggior parte dei profughi è stata esiliata, pochi quelli riusciti a far ritorno alle proprie case. Tra loro molti musulmani fuggiti dalle ritorsioni delle milizie Seleka.

“Hanno distrutto case, incendiato e saccheggiato abitazioni” racconta Bertin Botto, cordinatore del campo M’Poko “Tra i 20.000 rifugiati presenti oggi nel campo, nessuno ha più una casa o un riparo. Soffrono, non hanno più nulla. E’ questo che li trattiene a non tornare, più che l’insicurezza generale che regna nel Paese”. “Non possiamo uscire, è pericoloso” ci spiega un rifugiato“Appena la situazione cambierà e le milizie saranno disarmate tornerà a casa mia

Tra i profughi regna l’inquietudine sul futuro del campo, temono che il Governo voglia dislocarlo. A conferma dei loro timori lo stop alla distribuzione di cibo. Il personale di Medici Senza Frontiere, con l‘ôspedale allestito nel campo, offre un prezioso sostegno ai profughi

Da Bangui ci spostiamo verso l’Ovest del Paese, Regione, dove il 90% della popolazione musulmana, è scappata dalle violenze dalle milizie anti-Balaka, avviate come risposta ai massacri perpetrati dai Seleka, I pochi musulmani rimasti si sono rifugiati nelle aeree protette dalla MINUSCA, la forza Onu presente nella Repubblica Centrafricana. Nella città di Carnot, ad esempio sono circa 600 i musulmani ad aver trovato rifugio una chiesa. Aspettano da mesi di poter tornare nelle proprie case. Impossibile per loro allontanarsi troppo, la paura di essere aggrediti è forte.

Il sindaco di Carnot si sforza di mantenere la calma nella città, anche attraverso continui negoziati tra i rappresentati delle diverse comunità e i capi delle milizie Anti-Balaka. Il primo cittadino di Carnot ci spiega che le case dei musulmani costretti a fuggire sono state occupate come precauzione contro incendi e saccheggi.“Stiamo facendo di tutto con il Consiglio dei Saggi e il parroco” racconta a Euronews “Per riuscire a salvare questo edificio. Queste case restano dei beni anche se i proprietari non ci sono, vanno controllate sempre. Fino al momento della riconciliazione”.

Sulla riconciliazione sono in molti a insistere, soprattutto da quando l’economia è praticamente ferma. A complicare il quadro il peggioramento della situazione sanitaria, oggi in condizioni disastrose. Medici Senza Frontiere si è sostituita ormai da tempo al servizio sanitario pubblico. Infezioni respiratorie, Aids e malaria sono all’ordine del giorno nell’ospedale di Carnot. Sempre più frequenti anche i casi di malnutrizione infantile. “Durante la guerra ne arrivavano di meno, perché le persone si spostavano, alcuni avevano provato a rifugiarsi nella foresta, altri si nascondevano” racconta Justin Oladedji, pediatra di MSF “Le coltivazioni sono state abbandonate, e questo ha lasciato i bambini senza cibo. Dalla tregua abbiamo iniziato ad avere sempre più casi di bambini malnutriti”.

La povertà della popolazione contrasta violentemente con la ricchezza mineraria della regione, in gran parte dipendente dall’industria dei diamanti. Nonostante sia stata sottomessa all’embargo, l’esportazione delle pietre preziose continua a profitto dei trafficanti. La criminalità, intanto, dilaga.Lungo la strada che collega l’ovest alla frontiera con il Camerun i convogli commerciali o contententi aiuti umanitari sono regolarmente saccheggiati.

Riusciamo ad arrivare senza problemi a Berberati, seconda città del Paese. Anche qui la situazione appare subito complessa, soprattutto dal punto di vista sanitario. “Il numero delle persone che decide di recarsi in ospedale è molto più alto oggi, perché le cure sono gratuite” racconta Michel Bimako, Direttore dell’ospedale MSF a Berberati. In passato, quando non era così, le persone restavano a casa per trattamenti tradizionali. Grazie alle cure gratuite il numero dei bambini a venire in ospedale è più alto. Non sarebbero mai venuti altrimenti”. A supportare le strutture sanitarie della città la squadra di Medici Senza Frontiere. Come a Potopoto, un quartiere della città. Il numero dei pazienti è diminuito dopo la partenza della comunità musulmana, cacciata dalle milizie anti-balaka. Le loro case sono state incendiate o distrutte. Una rappresaglia ordinata per vendicare il massacro dei non ,musulmani condotto dai Seleka durante il conflitto.

Difficile pensare come il Paese possa riuscire in un futuro non troppo lontano a ricreare un clima di coabitazione tra le sue diverse anime. “Le persone che vivono qui sono dei senzatetto” spiega Edouard Guioua, Direttore dell’ospedale di Potopoto“Appena partite le famiglie musulmane sono corsi a occupare le loro case. Altri, invece, ne hanno approfittato soltanto per distruggere le cose”.

A Potopoto incontriamo un gruppo di giovani che si definiscono miliziani anti-Balaka. Molti di loro hanno lo sguardo vuoto, sono distrutti dall’alcol o dalla droga. Ci raccontano di crimini orribili, imperdonabili. I loro spiriti si riscaldano facilmente.

I 350 musulmani ancora presenti a Berberati hanno trovato riparo dal vescovo. Impossibile per loro uscire anche soltanto per qualche minuto dalla chiesa. Le aggressioni si susseguono numerose. Il Vescovo di Berberati è intenzionato a proteggere le famiglie musulmane e si è detto disposto a ospitarle fin quando sarà necessario. “Si tratta di un conflitto politico” ammette il vescovo “La religione è solo un pretesto. Altrimenti le due comunità non si combatterebbero. Ci stiamo sforzando di farglielo capire, tutti hanno la libertà di uscire. Ma il messaggio deve ancora arrivare all’orecchio di quelli che controllano la situazione. E’ questo che ci fa soffrire, ma non ci lasceremo scoraggiare, assolutamente no”.

Tra i musulmani di Berberati, però, regna la paura. Abdou Raman è arrivato da qualche giorno. Si è nascosto per mesi, è stato aggredito a colpi di machete per aver solo provato a tornare nel proprio villaggio, decimato dagli anti-balaka. Nonostante tutto, non perde la speranza. “Noi centroafricani: cristiani o musulmani, siamo la stessa cosa” racconta“E’ stato il diavolo a insidiarsi tra di noi. Mangiavamo e dormivano insieme. Sono i politici ad aver sbagliato, ma il popolo si riconcilierà”. – Euronews

 

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