Se questo è un safari

di claudia

L’Africa fuori dagli schemi di Kiluanji Kia Henda. Versatile, ironico, critico, a tratti barocco, comincia a farsi conoscere anche in Europa e Italia un artista angolano poliedrico anche nelle forme espressive da lui scelte. La sua Africa non cuore di tenebra né paradiso perduto

di Stefania Ragusa

Kiluanji Kia Henda è un raffinato artista angolano, autore di installazioni, video e serie fotografiche ispirate ai retaggi coloniali e alle archeologie residuali della Guerra fredda. Classe 1979, vive tra Luanda e Lisbona e ha esposto in tutto il mondo. In Italia non è molto conosciuto, anche se a Napoli c’è una galleria che lo rappresenta (www.galleriafonti.it). Nel 2007, in occasione della sua partecipazione alla Biennale di Venezia, vari magazine patinati hanno dato spazio ai suoi lavori. Nel 2017 si è aggiudicato il Frieze Artist Award, un riconoscimento importante mai assegnato prima a un artista africano.

Sguardo nuovo sulla Sardegna

Il museo Man di Nuoro ha ospitato la sua prima personale italiana, Something Happened on the Way to Heaven. In mostra, accanto a opere realizzate appositamente durante una residenza sull’isola – come la serie The Geometric Ballad of Fear: nove immagini che mostrano una successione di scorci della costa sarda, chiusi da una griglia geometrica che limita la vista e suggerisce l’idea di una prigione –, c’erano alcuni classici della sua produzione, che evidenziano la capacità dell’artista di spaziare tra generi fotografici (reportage, fine art, fotografia concettuale…). La versatilità è in effetti una delle caratteristiche di Kiluanji. Gli scatti barocchi e saturi di colore della serie The Last Journey of the Dictator Mussunda N’Zombo Before the Great Extinction – che mette in scena una sorta di fine delle dittature in Africa, ispirata a un Mobutu archetipo del dittatore africano – sembrano provenire da una mano e soprattutto da una mente diversissima da quella che ha concepito, per esempio, l’installazione (vista ancora al Man) O Manto da Apresentação.

Tetri safari

O Manto era una tenda di lana di pecora che scendeva dall’ultimo piano del museo fino a terra, in un’ampia citazione della scultura tessile immaginata dall’artista brasiliano Artur Bispo do Rosário per il momento in cui sarebbe entrato in paradiso.

Eppure dietro queste opere c’è sempre Kiluanji: la sua ironia, la sua cultura, il gusto per l’iperbole e la teatralità. The Last Journey è suddiviso in atti e racconta come il cadavere morto del potere venga sottoposto alla tecnica di impagliatura nota come tassidermia mentre gli animali-oggetti prendono vita. La serie gioca anche con l’idea del safari, attraverso la costruzione di paesaggi africani artificiali che rimandano a un’altra serie del medesimo periodo: In the Days of a Dark Safari.

In questo caso l’obiettivo critico e la narrazione per immagini si rivolgono a due visioni contrapposte ma ugualmente fallaci del continente: quella che insiste sull’anima selvaggia e sul cuore di tenebra, e quella che ne fa un paradiso perduto, corrotto dalla malvagità occidentale. Entrambe negano la realtà dell’Africa e dei suoi abitanti e la sottraggono a quell’accettazione dei chiaroscuri e a quell’assunzione di responsabilità che sono condizioni essenziali per prendere in mano il proprio destino.

Questo articolo è uscito sul numero 1/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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