Sahel, dove il clima detta legge

di claudia

di Marco Aime

La periodica scomparsa e il ritorno ciclico delle piogge hanno modificato nel corso della storia il paesaggio della regione saheliana. Le popolazioni hanno fatto il possibile per adattarsi ai cambiamenti. Ma l’attuale desertificazione e la crisi umanitaria collegata non sono frutto solo dei cambiamenti climatici

Ho percorso più volte le piste saheliane, in anni diversi. Ogni volta il paesaggio era differente. Le piogge condizionano in modo visibile il territorio, pennellandolo di verde brillante e intenso oppure sbiadendolo in una coltre polverosa e opaca. Il clima qui è un regista assoluto, bizzarro e imprevedibile. Nei primi anni Settanta il Sahel trovò spazio nei titoli dei giornali di tutto l’Occidente. Era la siccità a far animare le redazioni. Comparvero nelle nostre case immagini terribili, bambini denutriti, carcasse di animali morti di fame, storie di pastori che svendevano i loro buoi per poche lire, tanto di lì a poco sarebbero morti. La grande sete non era una novità per le popolazioni saheliane, ma neppure la regola. La storia del clima di questa regione è costellata di ombre e luci. Da quando, attorno al 3000 a.C., in seguito al ritiro della calotta polare artica, sul Sahara venne a mancare l’equilibrio tra le correnti fredde del nord e i monsoni da sud. L’indebolirsi del fronte settentrionale lasciò il solo monsone meridionale a lottare contro correnti sempre più aride, che andarono via via prendendo il sopravvento.

Attorno all’anno Mille l’aspetto del Sahara era quello attuale. L’anticiclone sahariano, un vortice di aria surriscaldata, aveva prevalso sulle masse di aria umida portate dai monsoni oceanici. Il Sahel resisteva però alla disfatta, e a questo deve il suo nome di “sponda” di quel mare arido che era diventato il Sahara. La minaccia di siccità era però sempre alle porte.

Gli alti e bassi continuarono con un andamento più che mai incerto e, nella seconda metà dell’Ottocento, sembrò che l’aria umida fosse tornata a benedire la terra assetata del Sahel. Era solo una tregua. Il Novecento vede l’inizio del declino saheliano. Nel 1908 erano già scomparsi numerosi laghi a sud del Sahara, le donne tentavano invano di pescare un po’ d’acqua in pozzi secchi, i cammelli vagavano in cerca di pascoli e le popolazioni del Tibesti e dell’Ennedi abbandonavano definitivamente le loro terre. Gli anni 1913-14 furono il culmine di una siccità prolungata che causò in certe località del Mali una mortalità umana del 30-50%.

Un po’ di piogge infusero speranza attorno agli anni Cinquanta, poi l’ennesima grande catastrofe, culminata nel 1972-73, con una piovosità inferiore del 75% alla già carente media locale. L’arsura provocò una forte evaporazione nei maggiori corsi d’acqua. La mancanza di risorse costrinse le famiglie a organizzare digiuni a giorni alterni sotto il controllo dei capifamiglia, e si fece ricorso a piante selvatiche, utilizzate come cibo nell’antichità e poi sostituite dai cereali coltivati. Il tutto, inserito in un sistema che già prevede un utilizzo incredibilmente basso di risorse naturali. Basti pensare che il consumo annuo di acqua di un abitante del Sahel per bere, coltivare e cucinare, è inferiore ai 50 m3. In Italia consumiamo 986 m3 l’anno; un americano, 1870.

La moria di bestiame fu terribile: dal 70 al 90% dei bovini saheliani perirono per la mancanza di cibo, con conseguenti ripercussioni sulle comunità di allevatori. Sono state soprattutto le donne a sottolineare la dipendenza dall’ambiente. In conseguenza del loro rapporto quotidiano con l’acqua, la legna e il nutrimento per i bambini, sono più coscienti del ruolo nefasto della pressione demografica sull’equilibrio ecologico del territorio. «Abbiamo tagliato gli alberi per nutrire i nostri figli», ha detto una donna del Niger, mettendo in evidenza che la desertificazione è non solo un flagello di Dio, ma soprattutto una conseguenza dell’accresciuta pressione demografica.

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