Sahara, sulle vie della sete e del sale

di claudia

Viaggio sulle vie del Sahara, dove il bisogno d’acqua e di sale spinge carovane di uomini ed animali ad affrontare vento, sabbia e calore

di Fabrizio Rovella

Il titolo riporta subito al bellissimo libro “Sulle vie della sete, dei ghiacci e dell’oro”, scritto da Ardito Desio, esimio geologo, scienziato ed esploratore, conosciuto dal grande pubblico per essere stato l’organizzatore e il capo-spedizione che portò l’Italia in cima al K2 nel lontano 1954. Per parlare di Sahara non ho potuto fare a meno di tralasciare il ghiaccio e occuparmi invece di sete, quella con la S maiuscola. Quando si cita la parola “via”, la nostra mente ci riporta subito alla Via per antonomasia, quella della Seta. Vi stupirei, però, se vi dicessi che non è esistita nessuna “Via della seta”, in quanto è stata etichettata così solo a partire dalla fine del XX secolo.

È vero invece che esistevano innumerevoli, per non dire infinite, rotte commerciali: Roma, India, Cina, Nord Europa, Venezia, Africa ed Asia Centrale. Via mare, i grandi navigatori arabi scoprirono l’andamento periodico dei monsoni, (dall’arabo: Mawsim) per cui poterono raggiungere le coste della Cina. Via fiume, basti pensare alla navigazione sul Nilo, sul Niger o sul Senegal. Via terra si raggiunsero luoghi divenuti leggendari, come Samarcanda, Isfahan, Sana’a e Timbuctu’, solo per citarne alcuni.

Andando però in ordine, come da titolo, parlerò di sete, il grande incubo per tutti gli abitanti del Sahara e del Sahel, un bisogno di acqua che dipende dalle precipitazioni annuali. In Mauritania ad esempio, è da parecchi anni che i maggiori problemi si concentrano nella regione del Tagant e poi ancora più a sud, fino al confine con il Mali. E, se nel centro nord basta la forza delle braccia per tirare su acqua da quasi tutti i pozzi, a sud è necessaria la forza animale, vedi asini o dromedari. Quest’ultimi, con il loro incessante andirivieni, issano il “Dellou“, il secchio che una volta veniva fatto di pelle di capra e ora invece con le camere d’aria dei camion. Ho provato io stesso ad attaccare la corda alla mia Toyota e, con grandissima sorpresa e stupore, mi sono reso conto che l’acqua si trovava a 80 metri di profondità.

Spesso nei miei viaggi mi è capitato di esser scambiato per un rappresentante di una qualche missione umanitaria per via delle Toyota e di subire le rimostranze di un intero villaggio, per poi scoprire che eravamo turisti e beneficiare della splendida ospitalità che solo gli abitanti del Sahara, sanno dare. L’acqua è al centro della vita così come i proverbi che ne parlano, penso ai Tinariwen ed al loro album “Aman Iman”, ovvero “L’acqua è vita”. Oppure al famoso “non andare mai al pozzo sprovvisto di una corda e di un recipiente”, pozzo che è anche luogo di ritrovo e scambio di informazioni. Vecchie scritte in Tifinagh, la scrittura dei Tuareg di origine fenicia le si trovano vicino a diversi pozzi in Algeria, e comunicano dove la tribù stava andando. Ora invece bastano dei potentissimi Thuraya, i telefoni satellitari.

Ma la sete, quella drammatica che porta purtroppo alla morte è quella con cui convivono i migranti, nelle loro traversate verso il tanto agognato nord. Normalmente partono con una tanica da 20 litri appesa fuori dal camion o dalla Toyota e deve servire per tutto: bere, cucinare e lavarsi. Per chi ha conosciuto il deserto in estate sa che è una spaventosa fornace, dove in alcune zone, vedi In Salah in Algeria, la temperatura ha toccato i 46° di minima la notte. Al contrario, più volte ho incrociato in inverno tra Algeria e Mali dei mezzi carichi di disperati, per loro si poneva il problema del freddo, per non dire gelo. Una volta ci chiesero della legna perché era da giorni che non mangiavano un pasto caldo. Lo stesso vale per chi veniva lasciato dai trafficanti di uomini alla base della falesia sopra Djanet e a piedi, correndo tutta notte, cercava poi di scendere in territorio libico. Bivacchi all’addaccio per noi, ma muniti di sacchi a pelo, tende e cucina da campo, con pasti caldi. Loro invece più volte li ho intravisti in maglietta, pantaloncini ed infradito, con occhi grandi terrorizzati che noi fossimo gendarmi o militari. Per questo si prese poi l’abitudine di lasciare in diversi anfratti delle bottiglie d’acqua, qualche capo di abbigliamento caldo e del cibo.

E veniamo al Sale che secondo me è quasi più importante della Seta. Basti pensare che in passato era scambiato con l’oro e tuttora spinge carovane di uomini ed animali ad affrontare vento, sabbia e calore. Bisogna pensare che il sale marino, più facilmente disponibile e quindi anche meno caro, è considerato di scarsa qualità. In Niger viene raccolto dalle saline di Bilma e Fachi e portato attraverso il Tenerè ad Agadez. Unico punto di riferimento lungo tutto il cammino è “l’Alberò del Tenerè”, l’unico albero al mondo segnalato su una cartina geografica, la “Michelin 153” che ora è diventata “741 Africa Nord e Ovest”. Albero che i più sostengono sia stato abbattuto da un camionista libico ubriaco, mentre il grande Cino Boccazzi sostiene di essere stato lì presente quando fu abbattuto da una tempesta di sabbia di inaudita violenza. Ora è conservato al Museo di Niamey ed al suo posto è stato eretto un monumento in metallo.

Dromedari carichi di lastre di sale

Le vie del sale

E poi c’è Lei: Azalai, un nome, un mito, Taoudenni-Timbuktu’, circa 800 km, e viene fatta due volte all’anno sia in  stagione fredda che calda. Talmente estrema, questa carovana, che i dromedari che vanno verso nord lasciano a terra ad intervalli mucchi di foraggio per il ritorno, quando saranno invece carichi di lastre di sale. Meno conosciuta, ma attualmente la si può seguire per intero, è quella in Mauritania, dove la sicurezza è totale ed è un mio progetto per il tardo autunno di quest’anno. Qui si parte da Tichit, una delle quattro antiche città carovaniere con Chinguetti, Ouadane e Walata e si attraversa l’Aoukar. Infine l’inferno della Dancalia, la regione nell’estremo nord dell’Etiopia, arricchita dalla presenza dei nomadi Afar. Regione che comprende anche Eritrea e Gibuti.

Ad Ahmed Ela vi si trova la miniera di sale. Qui, non solo i dromedari vengono caricati di lastre di sale precedentemente lavorate con appositi scalpelli, ma anche gli asini. I lavoranti portano ai piedi dei sandali  in gomma coloratissimi, quelli usati dalla mia generazione in Liguria e Romagna negli anni 70 per entrare in acqua; anche se fortunatamente nei mercati si trovano quelli fatti con i copertoni delle auto e dei camion, decisamente più robusti. Era un vero spasso vedermi arrivare i ragazzini che, con fierezza, mi mostravano i loro nuovi sandali fiammanti e coloratissimi, facendomi sentire forse un po’ retrò.

L’ho seguita per alcuni giorni e, quando ci si inoltra lungo il fiume incassato tra gole scoscese, si comincia davvero a perdere la nozione del tempo. Ricordo di aver mangiato la Bargutta, il pane caldo che si fa cuocere sul fuoco avvolto da delle pietre incandescenti e di aver aiutato a lavare le corde incrostate di sale o di aver riempito le ghirbe, che mi hanno fatto sentire nel mio amato Sahara.

(Fabrizio Rovella)

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