Non solo Tigray, le crisi politiche dell’Etiopia

di claudia

di Enrico Casale

L’Etiopia cammina sull’orlo di un vulcano. Se, da un lato, nelle regioni settentrionali la pace, dopo due anni di guerra, sembra lentamente affermarsi, dall’altro, le tensioni etniche in altre regioni possono accendere nuovi focolai di tensione. È questa, in sintesi, l’analisi di Marco Di Liddo, ricercatore del Centro Studi Internazionali di Roma, per InfoAfrica.

«Nel Tigray – osserva – il processo di pace procede ma non in modo spedito. Il Paese è grande e ciò implica enormi problemi logistici per portare aiuti umanitari e ripristinare i servizi di base per la popolazione. Il livello di violenza però è calato in modo sensibile. Ci sono ancora scontri a livello locale tra milizie territoriali, ma si tratta di episodi minori e che non inficiano il processo di pace».

-Il dialogo politico quindi procede e, con esso, il disarmo?

«Sì, il confronto tra il governo di Addis Abeba e la dirigenza del Fronte popolare di liberazione del Tigray sta andando avanti. Il Tigray però è una nazione con un’identità spiccata che si riflette in una compattezza unica della classe dirigente che le dà una grande forza. Sono convinto che il premier etiope Abiy Ahmed dovrà fare alcune concessioni. E se non bastassero ai leader del Tplf? Temo che le tensioni potrebbero riprendere».

Quale ruolo ha avuto l’Eritrea?

«L’Eritrea è stata la vera vincitrice della guerra in Tigray. Ha avuto un ruolo fondamentale come alleato del governo di Addis Abeba per contenere l’avanzata dei tigrini e ricondurli nei confini della loro regione. Le sue truppe si sono in larga parte ritirate, ma alcuni reparti continuano a essere presenti sulle linee di confine. Quindi, ritengo che Asmara abbia ancora un gran peso nella politica interna dell’Etiopia e nel modo in cui si muoverà anche il governo di Abiy Ahmed».

Chiuso (o quasi) il capitolo della guerra del Tigray, sembra aprirsi un nuovo fronte: l’Oromia.

«L’Oromia è la “grande pancia” dell’Etiopia. All’interno della federazione etiope, è la regione più grande e la sua popolazione è la più numerosa. Da sempre, gli oromo sono un’etnia emarginata nel Paese. L’avvento al potere di Abiy Ahmed aveva suscitato grandi aspettative. Molti oromo si aspettavano che il premier ribaltasse i rapporti di forza tra le etnie etiopi, ciò è avvenuto solo in piccola parte. In Oromia quindi si è creata, in larga parte della popolazione, una frustrazione nei confronti del governo. Il rischio è che l’esempio del Tigray faccia scuola. Cioè che gli oromo si illudano che prendere le armi possa portare a ottenere almeno alcune delle rivendicazioni. È vero che gli oromo sono più divisi, meno compatti dei tigrini, ma possono comunque accendere focolai di rivolta.

Si corre il rischio che l’Etiopia possa implodere come l’ex Jugoslavia?

Il rischio c’è, come altrove in Africa. Finora il premier è stato in grado di gestire la situazione e tenere sotto controllo le ribellioni soprattutto in Oromia. Non è detto che ciò possa durare per sempre. Gli oromo possono trovare alleati in altre etnie. Penso ai somali, alle tribù dell’est, ma anche agli amhara che potrebbero non trovare soddisfatte le loro rivendicazioni dopo la guerra in Tigray (quando hanno sostenuto il governo centrale).

Un’instabilità interna etiope potrebbe avere ricadute sull’intera Africa orientale?

Certamente. L’Etiopia è un gigante che ha un ruolo importante nel mantenere la stabilità nell’intera regione. Pensiamo al ruolo fondamentale nella crisi somala dove, appoggiando il Somaliland, ha promosso l’assetto confederale. Oppure in Sud Sudan dove è diventata il garante degli equilibri fra le etnie. Pensiamo all’importanza della Grande diga del millennio, la cui gestione ha influssi su tutto il bacino del Nilo fino al Mar Mediterraneo.

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