Nigeria: tornare alle origini per battere la tratta

di Stefania Ragusa

Sono passati 25 anni dall’adozione della Dichiarazione di Pechino che indicava nella tratta di donne e bambine “un problema urgente per la comunità internazionale” e che impegnava i governi a mobilitarsi seriamente per eradicarla. I progressi in questo senso rimangono tuttavia inaccettabilmente lenti.
L’Organizzazione del lavoro stima che 28,7 milioni di donne e ragazze (il 71% dei numero totale di vittime) in tutto il mondo siano sottoposte a lavoro forzato, schiavitù per debiti, matrimoni forzati e pratiche simili. La pandemia da coronavirus ha peggiorato la situazione aumentando la vulnerabilità di donne e ragazze allo sfruttamento, all’abuso e alla tratta e riducendo le possibilità di intervento.

Uno dei paesi più toccati dal problema è la Nigeria, in particolare lo stato di Edo. È difficile stabilire quante donne e ragazze siano oggetto di tratta da, verso e all’interno della Nigeria, poiché non esistono dati affidabili. Tuttavia, la Nigeria è regolarmente elencata come uno dei principali paesi “fornitori” con vittime identificate in più di 34 nazioni nel 2018, secondo i dati diffusi dall’Ufficio del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti in relazione al monitoraggio e alla lotta alla tratta di persone.

Esohe Agatishe, nel corso della conversazione con Africa

Esohe Aghatise, avvocata e attivista di origine nigeriana, fondatrice a Torino dell’associazione Iroko e impegnata fino a poche settimane fa nel programma Sotin (Stamping out Trafficking in Nigeria), finanziato dal governo britannico, conferma a Africa di avere ricevuto in tempi recenti richieste d’aiuto dal Libano, da Dubai, dalla Russia, dalla Malaysia.
«È un fenomeno globalizzato, che invece di ridursi, dopo Pechino, si è allargato sempre di più», dice l’attivista, che parteciperà domenica al seminario Africa e sessualità. Questioni aperte e luoghi comuni.

Come mai si è allargato sempre di più?
«Probabilmente perché ci siamo concentrati molto sulle sue manifestazioni terminali trascurando le cause profonde, ossia le ragioni per cui le donne nigeriane e in particolare quelle di Edo e non altre si sono trovate coinvolte in questo traffico. Con il programma Sotin, che purtroppo è stato chiuso anzitempo a causa del covid-19, siamo andati esattamente alla ricerca di queste spiegazioni, avendo in testa tre obiettivi: migliorare la risposta degli enti governativi dello stato di Edo; migliorare la risposta del terzo settore; fare confluire in un’unica piattaforma tutto quello che si è imparato negli anni su questo complessa materia».

Cominciamo dalla questione centrale: com’è iniziato tutto?
«In modo quasi casuale. Negli anni ’80 molte donne nigeriane andavano in Italia ad acquistare abiti e accessori che poi rivendevano in patria. Con la crisi questo è diventato più difficile e le stesse donne hanno capito che poteva esserci un modo più veloce per fare soldi.
La causa non è solo la difficoltà economica, come spesso di è portati a pensare. Edo non è certo uno degli stati più poveri della Nigeria. Le cause sono da ricondurre a una pluralità di fattori. La mancanza di opportunità combinata alla convinzione che, per cambiare le sorti della propria famiglia, la cosa più rapida e sicura sia la migrazione in Europa, terra che viene vista ancora come un Eldorado».

C’è anche un problema di genere?
«Sì: le donne nello stato di Edo non non vengono fatte studiare, i parenti riversano su di loro aspettative materiali e di tipo economico. Il viaggio in Europa diventa una sorta di sacrificio necessario per sollevare le sorti della famiglia. Ma in realtà nessuna ottiene il risultato sperato perché rimangono incagliate nei debiti. Molte ragazze sanno perfettamente che ad aspettarle c’è la prostituzione, ma non hanno idea di cosa significhi in concreto essere prostituite, non immaginano quello a cui vanno incontro. Assorbono sin da bambine l’idea che per le donne sia fondamentale essere belle, sensuali e compiacenti e non immaginano che possano esserci altre strade. Un cristianesimo molto conservatore e lontano dai valori cristiani, che vuole la donna asservita al marito e simile a un oggetto, e le connivenze della politica fanno il resto».

Ma chi sono le donne risucchiate nella tratta?
«Nella maggior parte dei casi sono ragazze che non si sono mai prostituite. Molte tra loro partono pensando che andranno a fare le mantenute, che dovranno compiacere uomini ricchi che in cambio le ricopriranno di soldi e regali. Per capire come sia possibile credere a questa “storia”, bisogna pensare a quanto sia diffuso ormai il fenomeno che nell’Africa anglofona è chiamato sugar daddy e sugar baby e che indica appunto un tipo di relazione tra giovani donne e uomini maturi, improntata allo scambio tra favori sessuali e regali. Ci sono ragazze che vengono approcciate da facoltosi sugar daddy nelle università e che usano questo tipo di relazione per pagarsi gli studi. Certo, oggi le informazioni circolano. La differenza tra un trafficante e un sugar daddy dovrebbe essere chiara, eppure non è così. Molte ragazze preferiscono credere di avere davanti una grande opportunità e non guardano la realtà».

Come se ne esce?
«Ci vorrebbe una rivoluzione culturale, un recupero dei valori tradizionali. Gli aiuti a valle sono utili, l’impegno sul piano giudiziario non è messo in discussione, ma se si vuole eradicare questo problema e non solo tamponarlo, bisogna risalire alle cause e lavorare su quelle. A Edo, ma vale anche per molte altre parti della Nigeria, si è compiuta una sorta di rimozione culturale. Tante persone, per esempio, parlano del cristianesimo come se fosse il punto di partenza della nostra storia e sul resto mantengono una visione molto confusa. Sarebbe importante recuperare la consapevolezza di come la prostituzione sia un concetto estraneo alla tradizione edo, basti pensare che nella lingua edo non c’è neanche una parola per designarla. I trafficanti con i loro riti fanno leva sull’ignoranza delle persone. Le ragazze non sanno che la religione tradizionale non ammette questo uso deil’energia spirituale. Non è casuale che le cosiddette madam o zie, le donne che gestiscono il traffico, spendano grosse cifre in riti di protezione, perché sanno che quello che fanno è contro la religione tradizionale»

Da chi dovrebbe partire la rivoluzione culturale?
«I capi religiosi hanno un grande ascendente che dovrebbe essere utilizzato. Quello che ha fatto il re del Benin due anni fa, per esempio, è stato fondamentale. L’Oba del regno del Benin, Ewuare II, ha emanato un vero e proprio editto di condanna dei riti voudun volti ad assoggettare le donne vittime di tratta e a rendere più difficile la loro liberazione. Un proclama che ha avuto un significato politico oltre che spirituale e che ha sortito effetti immediati: molte ragazze si sono liberate e molte madam hanno lasciato il business».

(Stefania Ragusa)

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