L’inquietudine afroamericana nei film di Akosua Adoma Owuso

di Marco Trovato

“Non avevo programmato di diventare una film-maker. La passione per regia è scoppiata quando ero in lotta con la mia identità, sospesa tra le mie origini ghanesi e la nazione in cui sono cresciuta, gli Stati Uniti d’America”. La regista Akosua Adoma Owuso, trentasei anni, vanta un curriculum artistico di successo. I suoi film sono stati proiettati e premiati in occasione di importanti eventi culturali, come il Locarno Film Festival e il Toronto International film Festival. Molteplici sono anche le istituzioni museali che li hanno ospitati, come il Centre Pompidou di Parigi.

Il cinema di Akosua è il frutto di un percorso artistico e produttivo che riflette la sua esperienza personale. “I miei film hanno tutti a che fare con me”, sottolinea la regista. Riferendosi al conflitto interiore che emerge dalle sue produzioni, aggiunge: “Avvertivo l’angoscia del non sentire che ci fosse un luogo che potessi chiamare casa. In Ghana ho sempre percepito di essere troppo americana e in America di essere troppo ghanese”.

La sua identità scissa rientra in ciò che il sociologo e attivista W. E. B. Du Bois ha teorizzato nel libro “The Souls of Black Folk” come “doppia coscienza”. Questa condizione, che proverebbero le persone afroamericane nel guardarsi sempre attraverso l’occhio dell’altro, è il fulcro della riflessione cinematografica di Akosua. I suoi film offrono una voce a tutti coloro che hanno formato la propria identità in uno stato di discriminazione e dislocazione culturale.

La potenza del suo lavoro risiede anche nell’aver trasformato un conflitto in un motore creativo. “Quell’angoscia, quella crisi esistenziale è ciò che ho utilizzato come strumento generativo per realizzare il mio lavoro”, spiega.

In dieci anni Akosua ha sviluppato e ampliato questo concetto di doppia coscienza, grazie alle potenzialità del mezzo cinematografico. Dai suoi film emerge come gli africani immigrati negli Stati Uniti abbiano sviluppato non solo una doppia, ma una tripla coscienza, vivendo in uno spazio dove identità diverse collidono.

Le sue storie abbracciano le molteplici sfaccettature dell’esperienza della diaspora, a partire dalle difficoltà dell’immigrato africano ad assimilare la cultura americana. Di riferimento è sempre la sua storia personale e dei suoi genitori che sono espatriati dal Ghana. Il punto di vista di Akosua pian piano si allarga, toccando temi come la frequente non differenziazione, nello sguardo occidentale, tra gli immigrati africani e gli afroamericani, per il medesimo colore della pelle.

Nei suoi film vengono messi in scena spazi e identità frammentate, che allo stesso tempo fanno parte di un insieme. L’intento è quello di creare “un terzo spazio di coscienza cinematografica”, aprendo gli orizzonti anche ad altre identità discriminate non contemplate da Du Bois, come quella femminile o queer.

Una riflessione importante su cui la regista si sofferma è la relazione che intercorre tra il concetto di bellezza e potere. I canoni occidentali impongono infatti un modello estetico che promuove la bianchezza come standard ideale. Questo avviene a discapito della nerezza degli africani che si trovano a vivere un conflitto eterno e non risolvibile. Tale conflitto è espresso da Akosua nei suoi film attraverso una manipolazione dell’immagine e del suono, a sottolinearne l’assurdità, ma al contempo la potenza di queste sovrastrutture.

White Afro” è il cortometraggio che è stato presentato al Locarno Film Festival nel 2019. Il film ha una valenza politica sottile, già evidente dal titolo. Si struttura come un tutorial per insegnare alle clienti bianche ad arricciarsi i capelli. “È ispirato alla storia di mia mamma che lavorava in un salone di parrucchieri per bianchi ad Alexandria, in Virginia – racconta la regista –  Fa parte di una trilogia di film sperimentali sui quali ho lavorato utilizzando i capelli come soggetto e metafora di cultura ed identità”.

Già in precedenza Akosua aveva ricorso  all’espediente della capigliatura come simbolo. In “Me Broni Ba”, girato in Ghana nel 2009, in un salone di Kumasi, le donne che intrecciano i capelli di bambole bianche, sono un’immagine che la regista propone per evocare la controversa memoria del colonialismo europeo e i suoi intrecci storico politici.

In Africa, ma non solo, le donne registe sono in minoranza rispetto agli uomini, ma la storia di Akosua Adoma Owuso offre una prospettiva diversa. “Sono così felice di essere qui in questa occasione come regista donna e nera, a rappresentare il mio paese in un palcoscenico internazionale”, ha dichiarato in un’intervista durante il Festival di Locarno del 2019.  Rivolgendosi a chi vuole intraprendere il suo stesso mestiere, aggiunge: “L’idea di girare un film può spaventare, ma io non penso mai al risultato o come andrà a finire. Il cinema mi ha trovato perché amo il processo della creazione”.

Passione e audacia l’hanno premiata. Akosua è stata nominata da IndieWire come “una delle sei registe donne d’avanguardia che ha ridefinito il cinema”.

(Claudia Volonterio)

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