La terza vita dei nostri abiti

di AFRICA
Amah-Ayiv-0

Tonnellate di indumenti usati vengono inviati in Africa da associazioni caritevoli europee e statunitensi. Una “beneficenza” che rappresenta un problema per l’economia locale. Il togolese Amah Ayiv riporta gli abiti in Europa e li trasforma in capi ricercatissimi

Tra i possibili modi di diventare milionari, Amah Ayiv ne ha scelto uno particolarmente ecologico e creativo. La sua è una storia che comincia in Togo e non è ancora finita. Nel 1983, a 12 anni, Amah arriva in Francia al seguito di uno zio. Prosegue gli studi cominciati a Lomé fino ad approfondire il marketing. Per nove anni lavora come direttore casting, quindi approda al Comptoir Général, un locale di tendenza che aveva appena aperto i battenti e non aveva ancora pensato a proporre il brunch alla clientela.

Da Lomé a Parigi

Amah si fa avanti e riesce a conquistarsi un posto proponendo al titolare un format di afro-brunch che diventa subito molto popolare. Ed è mentre lavora al Comptoir che prende corpo l’idea di reinterpretare il vintage africano a uso e consumo del mercato occidentale. Si era reso conto della passione europea per un certo tipo di usato e aveva visto negli abiti africani dismessi un’opportunità da valorizzare. Il proprietario del locale gli mette a disposizione un mezzanino, subito ribattezzato Marché Noir. Da qui si sviluppa un business articolato e di successo.  

Inizialmente l’approvvigionamento era fatto in un magazzino di Marsiglia. Poi si comincia a guardare direttamente all’Africa. Oggi, il 95% di abiti e accessori proviene dal Togo e Marché Noir è diventato un brand e uno spazio polifunzionale indipendente, un concept store che si estende per oltre 600 metri quadri. Comprende un negozio, una sala espositiva, un laboratorio e una sala da tè. Ci si va per comprare capi e pezzi unici, ma anche per gustare mocktail e cocktail tropicali o prender una tazza di caffè.

È interessante notare come gli abiti usati provenienti dall’Africa arrivino in realtà, in prima battuta, dall’Europa e soprattutto dagli Stati Uniti. Si tratta in molti casi di indumenti raccolti da associazioni di beneficenza per finanziare le loro attività e che vengono inviati sul continente. Qui iniziano una seconda vita, ma vanno anche ad aumentare il carico complessivo dei rifiuti.

Spesso, per dirne una, arrivano capi in pelliccia, cappotti di lana o stivali pesanti decisamente inadatti. Amah e collaboratori li riacquistano per poco, li riassemblano e customizzano ponendo le premesse per una terza vita che si svolgerà in Occidente.

Stile unico

Il motto che riassume perfettamente l’operazione è: dal terreno allo showroom. Una sorta di “dalle stalle alle stelle” in chiave fashion. Il ricarico può essere incredibilmente alto: un singolo pezzo può essere rivenduto a 200 euro. D’altra parte la creatività ha un prezzo. Secondo quali linee stilistiche avviene il riassemblamento? «Il mio principale riferimento è… l’esercito – ha spiegato Amah in un’intervista –. Penso che sia il più grande designer che esista. Le divise militari, nelle varie parti del mondo, mi ispirano per i loro tagli, i loro materiali e i loro colori. Niente viene fatto a caso in questi vestiti. Il minimo dettaglio è importante, pratico e allo stesso tempo elegante. Mi piacciono molto anche le tenute da lavoro, in particolare quelle prodotte in Francia. Infine, gli outfit dei gruppi folk di diversi Paesi mi ispirano molto».

Impiegare il tempo alla ricerca di pezzi da reinventare è la sua attività preferita. Amah ha iniziato ad apprezzare il vintage da prima che diventasse trendy e trova inconcepibile il consumismo sfrenato che caratterizza il sistema moda. L’idea base, per lui, è che vestirsi è una sorta di gioco, una fenomenologia della personalità. «Adoro combinare cose completamente diverse per farle vivere e vibrare. Sono sinceramente convinto che il nostro stile rifletta il nostro temperamento e carattere. L’aspetto di una persona viene dall’interno. Quando ti vesti lo riveli: e può trattarsi di una poesia o di un messaggio secco», ha spiegato nella stessa intervista. «Conosco la differenza tra stile e moda. Per me il primo ci assomiglia e il secondo spesso ci distorce. Per quanto riguarda il mio mondo interiore, è quello che sono e si evolve con me secondo i miei desideri e la mia evoluzione».

Impresa culturale

In quest’ottica, la customizzazione degli abiti usati viene ad avere anche un valore educativo. Permette di far capire concretamente quanto potenziale ci sia tanto nel recupero come nel riciclo.

A ben vedere, si tratta di un pensiero molto africano, che meriterebbe di essere veicolato in tempi come questi, caratterizzati da preoccupazioni fondate per il cambiamento climatico e da una riduzione generalizzata del potere d’acquisto. Su questa filosofia si innesta la convinzione che less, meno, a certe condizioni possa davvero essere di più: more. Amah, d’altra parte, ha sempre dichiarato di muoversi nel fashion system sentendo però di non farne pienamente parte, perché l’orizzonte che scruta non è quello del mero profitto e tanto meno quello del marketing. Al proprio lavoro assegna un significato pedagogico e culturale, capace di mettere in relazione le persone e i continenti. Certo, dalla sua intuizione è riuscito a costruire un fatturato a molti zeri, sistemandosi personalmente e dando lavoro a tante persone che collaborano con lui, ma il suo più grande desiderio è che gli estimatori provino a emularlo, in un’ottica di slow fashion individuale.

La crisi del tessile

Il caso fortunato di Marché Noir non risolve tuttavia una delle questioni più spinose legate all’invio di indumenti usati in Africa. Come evidenziato da varie inchieste, si tratta di un business che vale miliardi di dollari e che interferisce pesantemente con lo sviluppo dell’industria tessile locale. Ci sono Paesi africani (Ruanda, Tanzania e Uganda) che, dopo aver alzato i dazi, avevano deciso uno stop alle importazioni dei vestiti usati. La manovra è rientrata di fronte alle per nulla velate minacce degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, che non a caso sono i maggiori esportatori della “materia prima”.

Fino agli anni Ottanta e Novanta, l’Africa aveva un suo mercato tessile. Le liberalizzazioni che hanno permesso le importazioni second-hand hanno messo in difficoltà le produzioni locali, portando alla chiusura di molte fabbriche. In tempi più recenti, le produzioni a basso costo provenienti dalla Cina hanno fatto il resto. Il risultato è che i posti di lavoro nel tessile sono praticamente evaporati e in Paesi, come la Nigeria, che potevano vantare produzioni interessanti dal punto di vista quantitativo e qualitativo, il settore è scomparso quasi del tutto.

Se è vero dunque che queste forme di recupero creativo – di cui Amah Ayiv è campione – rappresentano una sfaccettata opportunità, altrettanto necessario è trovare il modo di incoraggiare l’industria locale della produzione dei tessuti e la creatività dei designer operativi in Africa. Amah dichiara di volersi dare da fare anche su questo. E infatti lo si trova spesso impegnato in collaborazioni strategiche con istituzioni sensibili alla tutela del patrimonio africano, come il Museo d’arte africana contemporanea “Al Maaden” di Marrakech. Perché la moda sarà anche un gioco (pur molto serio), ma questo non la sottrae al suo essere anche un racconto d’arte ed espressività.

(testo di Stefania Ragusa – foto di Andrew Esiebo / Panos / Luz)

Condividi

Altre letture correlate: