È una città, ma non compare su nessuna carta geografica. Ci abitano migliaia di persone, ma nessuno sa quante e da quanto vivano lì. Le autorità vorrebbero chiuderla, eliminarla, ma sanno che è impossibile. Il campo rifugiati di Dadaab in Kenya è un non-luogo. Un posto che c’è, ma che le nostre coscienze faticano ad accettare e vorrebbero cancellare. Un immenso campo profughi nella contea di Garissa (Kenya) nel quale migliaia di rifugiati somali e di altri Paesi del Corno d’Africa vivono senza più sogni né un futuro.
Su questa tragica realtà ha aperto uno squarcio Ben Rawlence, con il suo best seller «La città delle spine» (Brioschi Editore, pp. 448, euro 18). Rawlence oggi, 8 maggio, sarà alla Triennale di Milano (ore 18,30, Triennale di Milano, Sala Lab, viale Emilio Alemagna 6) e il 10 al Salone del Libro di Torino (ore 12, Lingotto Fiere, via Nizza 280) per presentare l’edizione italiana.
«Ho trascorso otto anni a fare ricerche su chi ci abita – racconta al “Corriere della sera” Ben Rawlence -. Chiamarlo campo profughi, è fuorviante. Ormai è un’area urbana abitata da mezzo milione di persone, grande come Zurigo, anche se non appare su nessuna mappa ufficiale. Una città che veniva visitata da Angelina Jolie e da Bono, gli anni in cui andava di moda e adesso che il numero dei rifugiati è al suo massimo storico, viene ignorata dai Paesi ricchi».
«Pochissimi possono lasciare Daadab con lo status di profugo – continua l’autore -: agli altri, non resta che il tahrib (il viaggio della speranza verso l’Europa) o un impossibile ritorno in Somalia, perché il governo kenyano sta facendo di tutto per smantellare le baracche. Chi non c’è stato non può capire: rifugiati che vogliono stare alla larga dai somali islamisti e sono grandi sostenitori dell’America, eppure vengono rastrellati e derubati dai kenyoti; gente spaventata dal terrorismo più di noi, ma spinta dal nostro disinteresse ad annegare in mare pur di non immolarsi come kamikaze; milioni di persone senza futuro. Tutti qui hanno una storia che è già stata raccontata così tante volte da scorrere liscia come una vecchia maniglia di legno impugnata da troppe mani. Nessuno vuole ammettere che Dadaab non è più un luogo temporaneo, ma una struttura permanente: una prigione non solo fisica, ma anche ideale».
A Daadab, Rawlence ha raccolto molte di queste storie. Quella di Guled, l’ex miliziano di al Shabaab che ha provato a venire in Europa e ha fallito, quella del facchino Nisho che fantastica su infinite ricchezze, quella di Kheyro che studia per fuggire, quella del professor Occhi Bianchi che trasmette via radio la vita del campo. Testimonianze di una vita-non-vita che ora nessuno può far finta di non conoscere.