I beach boys di Zanzibar

di claudia

di Alberto Salza

Durante la stagione turistica, schiere di giovani masai lasciano le savane per la spiaggia. Gli arenili bianchi di Zanzibar sono tornati a colorarsi di rosso. Il rosso delle tuniche dei celebri pastori guerrieri che offrono i loro servizi a turisti e turiste. Con le loro lance, fisici slanciati e portamento regale, incarnano il sogno esotico – talvolta erotico – di tanti vacanzieri occidentali. Con nomi improbabili quali Gianduiotto o Toto Cotugno, sanno come conquistarsi la simpatia degli italiani

Zanzigrad sorge a est di Creek Road, un tempo maleodorante fossato tra il nyika (l’oscuro interno) e la città di Zanzibar, edificata col corallo. Il nome locale di Zanzigrad è Ngambo: “l’aldilà”. Bel nome. Si tratta di un fronte compatto di casermoni grigi in stile sovietico che, dopo oltre cinquant’anni, sono ormai reclamati dall’Africa nera. Dopo averci passeggiato, anni fa, mi son ristorato nel giardino del Bwabwani Hotel, un incubo in stile anni Cinquanta, dotato di tavolini con formica scollata, il cui orizzonte era chiuso da una palude a canneto: nelle intenzioni dell’architetto funzionalista (probabilmente un maoista) doveva essere la più grande piscina d‘Africa.

I parallelepipedi di Zanzigrad facevano allegria, con i balconi adorni di stoffe rosse o a scacchi. «Sono le shuka dei Maasai: sa, le loro tuniche», mi disse l’anziano cameriere. «I Maasai le preferiscono ai pantaloni. Chiamano voi alieni iloridaa enjekat, “quelli che trattengono le puzze”». «Come fa a saperlo?», chiesi usando la formula di rispetto per gli anziani. «Un tempo ero uno di loro, un maasai da spiaggia. Un papasi, una zecca, come dicono qui», rispose con un tocco di malinconia.

I Maasai sono famosi in qualità di pastori di savana e grandi guerrieri: che ci fanno sulle spiagge dei villaggi turistici? Li si può incontrare a Zanzibar, ma anche più a nord, fino a Lamu, al confine tra Kenya e Somalia: sono i beach boys dell’Africa orientale, senza alcuna Surfin’ Safari da cantare, però. Talvolta utilizzati come guardiani, per via delle loro qualità di combattenti e la totale estraneità a possibili combutte con i locali, i Maasai da spiaggia sono essenzialmente preda del mercato turistico-sessuale: in gonnellina e torso nudo, i capelli arricciolati d’ocra, collane di perline, lancia, daga e mazza, piacciono alle donne europee, in vacanza anche dal cervello.

La Masai bianca

A fine degli anni Ottanta ebbe grande successo il libro La Masai bianca, autobiografia di Corinne, una donna tedesca di 27 anni che abbandonò il fidanzato per sposare un beach boy di Kilifi, al confine tra Kenya e Tanzania. Parole di Corinne: «Là, sul parapetto del traghetto, sta seduto un uomo bellissimo: alto, scuro di pelle, esotico. Con i suoi occhi neri, guarda noi, gli unici bianchi in quella confusione. Dio mio, penso, quant’è bello, non avevo mai visto niente di simile».

Straordinaria sintesi di pregiudizi su fisicità ed esotismo erotici. Nel nostro caso, poco importa che il giovanotto non fosse un Maasai ma un Samburu di Barsaloi, luogo che ho frequentato per trent’anni. Infatti conosco il paesaggio, il lignaggio del bellone e il missionario che ha unito i piccioncini; ho visto il filmato della cerimonia, e so che, ovviamente, l’unione durò solo quattro anni, a causa della vita di stenti implicita nelle capanne di fango e sterco dei pastori. In innumerevoli altri casi (per mio disdoro vi fu coinvolta pure una mia allieva), il romanticismo sessuale si è infranto sulle pratiche maschili locali: rudi, per terra, rapide e insoddisfacenti. L’importante è che il protagonista sia comunque un Maasai: che titolo sarebbe mai La Samburu bianca?

Le regole dell’abbordaggio

Tornando ai beach boys da cui è partita l’avventura della tedescotta, il loro lavoro ebbe un tale successo da generare voli charter di signore vogliose. L’abbordaggio ha un preciso algoritmo. Mi fu esplicitato come “caccia al turista” sulle rive del Lago Turkana (sempre di spiaggia si tratta), ma che verificai a suo tempo nei dintorni degli stabilimenti balneari di Zanzibar. Punto uno: pattugliare i punti di accesso turistico, come aeroporti e moli d’attracco; 2) agghindarsi e acconciarsi al primo segnale d’arrivo (motore d’aereo, sirena navale); 3) intercettare il flusso turistico allo sbarco (se possibile) o subito all’uscita; 4) identificare il bersaglio in funzione di età (meglio dai 45 in su) e accompagnatore (scartare, sia pur temporaneamente, le famiglie con figli); 5) apparire accanto al bersaglio nel proprio massimo splendore (sorridere a tutti denti come il gatto del Cheshire in Alice nel paese delle meraviglie); 6) esplicitare un dettagliato piano di visita, mettendo in piedi una sorta di contratto da guida, accompagnatore, magari amante (mai parlare di soldi); 7) inserire il bersaglio nella vita della comunità e delle feste organizzate dagli altri beach boys (nel caso specifico, le cosiddette danze maschili maasai sono efficaci nell’esibire forza, esotismo e corpi sudati); 8) concludere, a piacere.

Strategie di adattamento

«Voi, di grazia, non vogliate sdegnarvi, ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri» (Bertolt Brecht). I pastori nomadi d’Africa stanno evolvendo una serie di strategie di sopravvivenza che prevedono identità multiple. L’ho verificato sul campo in Sud Sudan, Somalia, Etiopia meridionale e Kenya. La Tanzania dei Maasai di Zanzibar non dovrebbe essere un’eccezione. In sostanza, la trasformazione ambientale (crisi climatica), territoriale (acquisizione di terre per agricoltura o protezione animale in parchi e riserve), politica (calo di potere nei confronti delle etnie oggi dominanti) e demografica (pressione di popolazioni circostanti), cui vanno aggiunte le varie guerre locali e internazionali, fanno sì che le persone dedite alla pastorizia siano – al contempo o in successione accelerata – nomadi (ancora per poco), agricoltori occasionali, mercanti, rifugiati, mercenari, personale delle ong, autisti, guide turistiche e molto altro, tra cui beach boys. E non è da tutti, ovviamente. Un beach boy di Zanzibar può appartenere a diverse popolazioni, anche locali. Si tratta di persona multitasking, con funzione di assistente personale non organizzato, utilissimo per scortavi al mercato, portarvi una papaya mentre nuotate, o darvi un’indispensabile mano negli imprevisti.

Con nomi improbabili quali Gianduiotto, Pino la Lavatrice, Bruno Conti o Toto Cotugno (per rimanere nell’ambito del turismo balneare degli italiani a Zanzibar), tale beach boy non è necessariamente coinvolto nel turismo sessuale.

Se scoppia l’amore

I Maasai, però, hanno un ego smisurato, da macho che – in un tempo assai lontano – avrebbe dovuto abbattere un leone per diventare uomo. Potranno apparire un po’ genderless con, nell’ordine, pitture facciali, gonne variopinte, collane di perline policrome al collo e attorno al torace, orecchini in lobi smisuratamente forati, rose di plastica tra i capelli intrecciati e unti d’ocra, ma non si degnano di servire gli alieni. Con le turiste, però, la cosa è diversa: l’esibizione del “maasaismo” (comprese le armi, i sandali di copertone e i famosi balzi in alto) è una revanche culturale, pur se miserabile. Dopo averli visti danzare sulle spiagge di Zanzibar, nei pressi di un villaggio all-inclusive, ho parlato con i gigolò maasai.

Il denaro, anche sotto forma di regalini, è l’ovvia molla iniziale. Una seconda motivazione è data dallo status di “accompagnatore di donna bianca”, con speranza di trasferimento non operoso (in senso lavorativo) nei Paesi industrializzati. Talvolta accadono vere storie d’amore al beach boy di turno. Se tocca a lui, allora (perlomeno agli inizi della professione) diventa melanconico e persegue ossessivamente la compagnia di qualsiasi persona dalla pelle bianca, senza più badare al genere. È l’esito peggiore: dopo aver venduto al negozio di souvenir lancia, daga e mazza, finisce per stendere la shuka rossa sui balconi grigi di Zanzigrad, al terzo piano. Lì, l’odore di nyama choma (l’amata carne arrostita) compete con l’esecrato afrore di pesce dal mare; sullo sfondo l’aroma del karafu, l’albero dei chiodi di garofano. Come campi, non si sa, e non interessa a nessuno.

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