Etiopia: esercito federale armato da Turchia, Emirati e Iran

di AFRICA
soldati etiopia

Gli Stati Uniti lanciano accuse sui presunti fornitori di armi del governo federale di Addis Abeba, mentre sul terreno non si arrestano i combattimenti

di Enrico Casale

Emirati Arabi Uniti, Iran e Turchia continuano a vendere armi alle forze armate etiopi impegnate in questi mesi a combattere contro i miliziani tigrini: lo sostiene Jeffrey Feltman, inviato del governo statunitense nella regione. Secondo le dichiarazioni rilasciate a Reuters e al New York Times, il diplomatico ha espresso preoccupazione per i trasferimenti di armamenti, anche sistemi complessi, che avrebbero aggravato la già delicata situazione sul terreno.

Secondo Feltman, la Turchia avrebbe venduto ad Addis Abeba droni Bayraktar TB-2 grazie a un accordo siglato tra Ankara e Addis Abeba ad agosto. Il New York Times ha invece riferito che gli Emirati Arabi Uniti avrebbero condotto attacchi, per conto dell’esercito etiope, utilizzando droni cinesi. Osservatori statunitensi hanno anche segnalato l’acquisto e l’uso di droni iraniani da parte di Addis Abeba. Il governo del primo ministro Abiy Ahmed ha però negato categoricamente di aver ottenuto forniture militari dall’Iran. 

In base alle informazioni diffuse dal governo di Addis Abeba, le forze armate federali sarebbero penetrate nel Tigray. Secondo quanto reso noto, i soldati etiopi hanno riconquistato mercoledì una città nel Tigray meridionale, segnando la prima grande avanzata all’interno della regione dopo che in estate i miliziani tigrini avevano lanciato una controffensiva che li aveva portati a conquistare ampie aree all’interno delle regioni Amhara e Afar.

L’ufficio stampa del governo di Addis Abeba ha affermato che “le forze di difesa etiopi e le forze di sicurezza della regione di Amhara dopo aver spazzato via le forze nemiche (…) hanno catturato la città di Alamata”, indicando che i combattimenti continueranno. E ha continuato: “Le forze di difesa nazionali etiopiche e le forze di sicurezza della regione di Amhara (…) stanno marciando su Abergele”.

Il Fronte popolare di liberazione del Tigray, che questa settimana aveva annunciato il suo ritiro dalle regioni di Amhara e Afar e aveva chiesto un cessate-il-fuoco, non ha risposto alle dichiarazioni del governo.

Sebbene non confermato, il ritiro delle forze del Tplf da Amhara e Afar aveva suscitato grandi speranze. Gli analisti politici speravano fosse un primo passo verso un dialogo nazionale che portasse alla fine del brutale conflitto iniziati nel novembre 2020 e che ha ucciso migliaia di persone e creato una crisi umanitaria con centinaia di migliaia di etiopi sull’orlo della carestia.

Negli ultimi mesi, entrambe le parti hanno rivendicato successi sul terreno e importanti avanzate. All’inizio dell’autunno, i ribelli tigrini, dopo aver siglato un’alleanza con l’Oromo Liberation Army, hanno addirittura affermato di trovarsi a soli 200 chilometri dalla capitale Addis Abeba.

Di fronte a queste notizie il primo ministro Abiy Ahmed (vincitore del premio Nobel per la pace 2019) ha preso la decisione di guidare direttamente le truppe e si è recato al fronte. Questa posizione, insieme a nuovi armamenti arrivati dall’estero, avrebbe galvanizzato le truppe federali che hanno lanciato l’attuale offensiva. Lunedì, il governo di Addis Ababa ha negato che le milizie tigrine si siano ritirate di spontanea volontà e ha affermato che il Tplf abbia arretrato le proprie truppe sotto l’incalzare dei reparti delle forze armate federali.

Per i media internazionali è difficile definire con esattezza la veridicità delle dichiarazioni dei belligeranti perché le zone di conflitto sono bandite ai giornalisti, rendendo difficile la verifica delle affermazioni.

In una lettera al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, questa settimana, il leader del Tplf Debretsion Gebremichael ha affermato di sperare che il ritiro dei ribelli sia “un’apertura decisiva per la pace”. Ma lo sforzo guidato dall’Unione africana per mediare un cessate-il-fuoco non è riuscito finora a produrre una svolta sul terreno.

Gli operatori umanitari si sono ripetutamente lamentati del fatto che la sicurezza e gli ostacoli burocratici impediscono l’accesso alla regione colpita, dove si pensa che almeno 400.000 persone siano sull’orlo della carestia. Le Nazioni Unite hanno anche sospeso i voli umanitari da Addis Abeba a Macallè, capitale del Tigray, a ottobre perché lo spazio aereo non era sicuro. I voli sono poi ripresi a novembre.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, i combattimenti nella seconda nazione più popolosa dell’Africa hanno provocato lo sfollamento di oltre due milioni di persone e più di nove milioni hanno bisogno di aiuti alimentari. Ci sono state segnalazioni di massacri, stupri di massa e altre atrocità da tutte le parti, e il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite la scorsa settimana ha ordinato un’indagine su una vasta gamma di presunti abusi, una mossa condannata da Addis Abeba.

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