Africa: medico italiano, la strage per Covid c’è ma non si vede

di claudia

“In Africa la strage per Covid c’è, ma non si vede, e sostenere il contrario potrebbe causare altri danni in termini di minore interesse e impegno a intervenire con aiuti appropriati”. È quanto ha denunciato Alessandro Campione, direttore dei programmi dell’organizzazione no profit Jembi, specializzata nello sviluppo di eHealth e sistemi informativi sanitari nei paesi della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc).

di Simona Salvi

Interpellato da Africa e Affari, Campione ha sottolineato che per comprendere l’impatto che il Covid ha avuto in Africa è necessario partire da questa premessa: “La maggior parte dei Paesi africani non ha un buon sistema per registrare morbilità e mortalità per cui, per comprendere la reale situazione sanitaria di un Paese, il sistema più sicuro è guardare al monitoraggio delle morti”.

Il medico italiano con oltre trent’anni di esperienza in Africa e in Sudamerica ricorda che il Sudafrica è tra le prime economie industrializzate del continente africano, dotato di un sistema di vigilanza della mortalità su base settimanale unico nella regione.

“Se i morti registrati ufficialmente in Sudafrica a gennaio sono oltre 90.000, i dati diffusi dall’Istituto superiore della Sanità sudafricano (Mrc) mostrano quasi 300.000 morti inattese, due terzi in più. Quindi la strage c’è, ma non si vede”, ha spiegato, precisando che “le morti inattese non sono necessariamente dovute a malattia Covid, ma anche alle conseguenze del Covid, perché possono essere state causate dal lockdown, dallo stress del sistema sanitario, comunque relazionate al Covid”.

“Il risultato è che il Sudafrica ha pagato un prezzo altissimo. E questa situazione probabilmente si può applicare alla maggior parte dei Paesi africani”, ha puntualizzato.

Anche la minore mortalità causata dalla variante Omicron, identificata proprio in Sudafrica lo scorso novembre, si spiega, “oltre che con la sua probabile minore gravità, con il fatto che l’immunità fosse già altissima” tra la popolazione. Studi condotti in Sudafrica prima che emergesse Omicron avevano infatti attestato che “nella popolazione over 50 si arriva all’80% di presenza di anticorpi contro il Covid”. E non certo grazie ai vaccini, visto che meno del 30% dei sudafricani è stato vaccinato con due dosi, ma perché “questo paese era già stato colpito duramente”.

Proprio riguardo ai vaccini, Campione ha sottolineato che “non basta mandare vaccini, magari con breve data di scadenza, e non accertarsi che ci siano celle frigorifere per mantenerli, siringhe, dispositivi di sicurezza per il personale sanitario, così come non basta mandare le dosi e poi non dare tanti, tanti fondi per fare le campagne”. Da medico impegnato da anni in campagne di vaccinazione in Africa, “so che c’è bisogno di investimenti enormi per movimentare il ministero, le organizzazioni della società civile e i media per raggiungere i villaggi e sensibilizzare la gente”. E questo impegno da parte della comunità internazionale appare al momento insufficiente.

A due anni dall’inizio della pandemia per Campione “è il momento di andare oltre gli interventi di emergenza e cominciare a pensare alla prevenzione futura”, garantendo aiuti più mirati al continente africano. Innanzitutto destinando “risorse per creare sistemi di informazione e registro dati di mortalità, di sorveglianza e ricerca mutazioni, per aiutare i paesi africani a monitorare la situazione e a trovare le varianti”, e certo, ha concluso, “non per chiuderli appena ne trovano una, come è successo con Omicron, ma perché le varianti vanno monitorate, per agire subito”. 

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