Razzismo e dintorni: dieci libri (imperdibili) più uno

di Stefania Ragusa

Dieci libri più uno che meritano di essere letti, a nostro avviso, se si è interessati al tema del razzismo e si vuole riflettere sulle sue fenomenologie e sugli strumenti culturali adatti a riconoscerlo e contrastarlo. Alcuni tra questi volumi sono recenti, altri hanno già parecchi anni. Alcuni parlano specificamente di razzismo, altri trattano temi connessi e interconnessi (identità, stereotipi, schiavitù…). In prevalenza si tratta di testi “non fiction”, ma in coda abbiamo voluto inserire anche un romanzo, splendido e straordinariamente illuminante (solo leggendolo capirete effettivamente perché). Le nostre sono scelte ponderate ma anche soggettive: non pretendiamo che siano le migliori o le uniche possibili. Suggerimenti o integrazioni sono come sempre molto graditi. 

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Francisco Bethencourt, l’autore di Razzismi (il Mulino, 2013), è uno stimato storico. E da storico, basandosi prevalentemente sull’analisi di fonti primarie, ricostruisce le forme che il razzismo ha assunto in Occidente dal MedioEvo ad oggi. Sceglie di concentrarsi su un arco temporale e geografico ampio ma preciso, non perché ritenga che il razzismo sia un prodotto solo occidentale, ma perché «l’Europa consente di sviluppare una cornice relativamente coerente sullo sfondo della quale analizzare poi fenomeni di razzismo simili, verificatisi anche in altre parti del mondo». Il suo assunto di base è che il razzismo è un fenomeno relazionale che cambia forma a seconda dei contesti, rimanendo però sempre associato e subalterno a obiettivi politici. Bethencourt smonta tanto la tesi che esso sia una disposizione innata della natura umana quanto la concezione, largamente accolta, secondo cui la teoria delle razze ne sarebbe il fondamento e la premessa.

Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo, di Guido Barbujani (Laterza 2016), delinea, con rigore di fonti e argomenti e nitide spiegazioni, la storia dell’homo sapiens e la sua origine africana. È un libro scientifico, che parla di genetica (e non per caso l’autore è un cattedratico genetista), evoluzione, archeologia, e che proprio per questo ha delle “ricadute” sul piano etico. Barbujani non prende posizione. Non ne ha bisogno. Lascia che siano i dati scientifici a rivelare l’inesistenza delle razze e l’inconsistenza delle narrazioni razziste, con tutto quel che ne deriva. Alla luce di quello che sappiamo oggi, insistere con certe argomentazioni e terminologie è, prima di ogni altra cosa, un nonosense.

Non è focalizzata sul razzismo La Storia della schiavitù in Africa di Paul E. Lovejoy (uscita nel 1983 e riproposta in italiano, da Bompiani, nel 2019). Si tratta però di una lettura complementare molto utile, perché scardina il pregiudizio dell’Africa continente senza storia e senza capacità di reazione di fronte alla tratta atlantica. Le cose non andarono così. Gli africani (alcuni africani) ebbero un ruolo. Ricostruire queste dinamiche non serve a sollevare i trafficanti e gli stati europei dalle loro enormi responsabilità, ma rappresenta un tributo alla verità storica e sottrae gli abitanti del continente a quella condizione di infantilizzazione perenne a cui certe letture bene intenzionate ma manichee vorrebbero inchiodarli. Lovejoy analizza «le modalità attraverso le quali la schiavitù, nella maggior parte dell’Africa, ha assunto, sia pure in forme diverse, la connotazione di istituzione economica dominante», scrive Mariano Pavanello (ordinario di Etnografia dell’Africa alla Sapienza e anche traduttore del libro) nella sua introduzione.

Razzismo e Indifferenza, di Renato Curcio  (Sensibili alle Foglie, 2010), è un volumetto agile che si concentra sul razzismo italiano: sui paradossi e le indecenze contemporanee e sui crimini compiuti nelle colonie ma anche sulle radici storiche, a partire dalle teorie “scientifiche” (per l’epoca) elaborate per stroncare le resistenze meridionali e insulari all’epopea risorgimentale. Tra le molte vicende che non trovano spazio nei libri di storia ci sono anche queste. Pochi oggi ricordano, per esempio, lo zelo con cui l’antropologo Alfredo Niceforo teorizzò l’inclinazione alla delinquenza insita nella “razza meridionale” e nessuno o quasi si scandalizza del fatto che in varie città italiane si trovino ancora strade a lui intestate. Curcio tocca il tema del razzismo antiserbo e antisloveno sotto il fascismo, le discriminazioni rivolte a rom ed ebrei, la costruzione del mito della razza pura. E, muovendosi da sociologo e osservatore militante, prova ad annodare la portata di questi processi al presente.

No razza, si cittadinanza, a cura di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi (Ibis, 2017) raccoglie una serie di interventi di studiosi e accademici che si  sono interrogati sull’opportunità di seguire l’esempio francese ed eliminare la parola “razza” della nostra Costituzione (cfr. articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.).  Ciascun autore lo ha fatto dalla propria prospettiva: giuridica per Andrea Gratteri, linguistica per Federico Faloppa, mediatica per Guido Bosticco, filosofica per Salvatore Veca… E le valutazioni e le conclusioni non sono unanimi. Tra i co-autori del volume anche Olga Rickards e Gianfranco Biondi, promotori di un appello portato avanti dall’Istituto Italiano di Antropologia e rivolto alle più alte cariche dello Stato, per l’abolizione del termine razza.

Kwame Anthony Appiah è un intellettuale rigoroso e una bellissima penna. Ne La menzogna dell’identità (Feltrinelli, 2019), analizza in una prospettiva filosofica e letteraria le identità collettive costruite attorno alla religione, la nazionalità, il colore della pelle, la classe sociale e la cultura. Ossia, realtà che tendiamo ad accogliere nel nostro immaginario come ovvie e quasi inevitabili, ma che hanno in realtà una loro storicità (recentissima nel caso della nazionalità) e un portato di varia incoerenza, manifesto già nell’impossibilità di definire in modo certo dove finisca il “noi” contrapposto al “voi” o al “loro”. Appiah osserva che le identità presunte “forti” hanno un tratto comune: producono tutte situazioni di conflitto e, in alcuni casi, di discriminazione e razzismo. Il tema forte dell’identità (da difendere, da affermare, da contrapporre…) si rivela alla fine una menzogna e/o una soluzione opportunistica e scivolosa.

La Razza e la Lingua, di Andrea Moro (La nave di Teseo, 2019): abbiamo apprezzato molto queste “sei lezioni sul razzismo” (come recita il sottotitolo) e, infatti, in questi mesi ci è capitato spesso di consigliarle. Moro è un docente di Linguistica e sceglie di affrontare  una particolare espressione di razzismo: l’idea che esisterebbero lingue più evolute di altra e che i parlanti queste lingue fossero pertanto in grado di dire di più e meglio degli altri. Si tratta di una convinzione insidiosa, più diffusa di quanto si possa immaginare e che, per quanto toalmente infondata sul piano scientifico, appare più difficile da contrastare. Tutti utilizziamo il linguaggio ma in realtà solo pochi sono consapevoli della sua architettura generale. Questo facilita gli sproloqui in tema. Moro prova a mettere un po’ d’ordine, ricorrendo ai dati e alle argomentazioni scientifiche.

Razzismi 2.0 di Stefano Pasta (Morcelliana, 2018) ha un sottotitolo che mette subito in chiaro gli obiettivi dell’autore: realizzare un’analisi socio-educativa dell’odio on line. Perché è la rete il luogo in cui si manifesta con più virulenza il razzismo contemporaneo. Il linguaggio d’odio sul web, i commenti razzisti, il cyberbullismo a sfondo xenofobo sono emergenze. Affrontarle efficacemente richiede uno sguardo d’insieme, più pedagogico che securitario. All’inizio del volume troviamo citato Friedrich Hölderlin e il suo verso “là dov’è il pericolo, cresce anche ciò che ci salva”. Per contrastare l’odio on line, vietare o punire servono a ben poco, sostiene Pasta. L’unica strategia sostenibile ed efficace è alla fine una seria pedagogia della comunicazione (in rete o non in rete), sviluppata lungo l’asse esterno del rispetto per l’altro e dell’empatia e quello interno della consapevolezza e del pensiero riflessivo. Senza questi passaggi qualsiasi sforzo di contrastare il razzismo 2.0 e le varie forme di aggressività digitale rischia di non portarci lontano.

Quando si parla di antirazzismo, viene spesso evocata la necessità di combattere i pregiudizi e destrutturare o contrastare gli stereotipi. Bene, ma non troppo. Perché prima di dichiarare guerra ai pregiudizi e agli stereotipi potrebbe essere opportuno capire meglio cosa essi siano e, soprattutto, a cosa siano serviti nel corso della nostra evoluzione: perché da svariati secoli ce li portiamo dietro. Fatto questo passo diventa più chiaro che il problema non sono i pregiudizi o gli stereotipi in quanto tali, ma l’uso distorto e strumentale che ne viene fatto. Pregiudizi e stereotipi di Paola Villano (Carocci Editore, 2013) ci guida alla comprensione di tutto questo, aiutandoci a liberarci da certe rigidità che mal si addicono a un pensiero critico e antirazzista. L’autrice è ordinaria di Psicologia Sociale all’Università di Bologna.

“Sbiancare un etiope” o “lavare la testa al moro” sono modi di dire (topos) che dall’antichità sono arrivati sino a noi. Indicavano, in origine, azioni impossibili e che dunque sarebbe stato saggio evitare. Ma non avevano, almeno fino all’avvento del Cristianesimo, una connotazione negativa. Federico Faloppa, attento studioso della lingua e del modo in cui essa venga impiegata nei processi di discriminazione ed esclusione, ha ricostruito la storia di questo topos in un intitolato, appunto, Sbiancare un etiope (Aracne, 2013). Non è un testo divulgativo. Eppure, nonostante le molte espressioni in greco e latino non tradotte, si presta a vari livelli di lettura e riflessione. In particolare, è in grado di suscitare l’interesse di quanti si interroghino sul modo in cui le parole e le espressioni che abbiamo a disposizione influenzino – talvolta davvero a nostra insaputa – i comportamenti e i vissuti che ci caratterizzano.

E, per chiudere, il romanzo. La macchia umana di Philip Roth (pubblicato in italiano da Einaudi nel 2001) racconta la storia di un professore del New Englad che resta vittima di una surreale caccia alle streghe scatenata dall’accusa di razzismo mossagli da alcuni studenti. Coleman Silk si trova costretto così ad abbandonare l’università e a ritirarsi dalla vita pubblica. Dopo la morte della moglie allaccia una relazione con Faunia, una donna molto più giovane di lui e di livello culturale e sociale inferiore, relazione che avrà un esito tragico. Dietro questo canovaccio essenziale, il genio narrativo di Roth  fa scorrere una vicenda complessa, attraversata da mistificazioni, rimossi e drammatiche rinunce che ci porta nel cuore feroce dell’America scolpito dal razzismo, dalla segregazione e dalla profilazione razziale.

(Stefania Ragusa)

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