Uganda, il pugno duro del presidente

di Marco Trovato
Giro di vite su attivisti, oppositori, giornalisti da parte delle forze di sicurezza fedeli al presidente uscente Yoweri Museveni, al potere da 35 anni, che punta a conquistare un sesto mandato alle elezioni del 14 gennaio. L’Occidente fa finta di non vedere perché Museveni è un fedele alleato, garante della stabilità di una nazione strategica per gli interessi internazionali e gli equilibri regionali

Opposizione imbavagliata, avvocati incarcerati, osservatori indipendenti perseguiti. In vista delle presidenziali del 14 gennaio, la repressione in Uganda si fa ancora più aspra. Il presidente uscente Yoweri Museveni, al potere da 35 anni, ha trasformato il coronavirus in un alleato per consolidare la sua “supremazia”. L’Uganda, tuttavia, non è nuovo all’utilizzo della violenza per gestire le manifestazioni di oppositori al regime, compresi gli arresti arbitrari. Ma con l’avvicinarsi delle elezioni – Museveni cerca un sesto mandato – la repressione ha preso una svolta ancora più estrema, secondo i difensori dei diritti umani. Tutto ciò, inoltre, preoccupa la comunità internazionale. A fine dicembre l’Ambasciata degli Stati Uniti ha avvertito che “chi mina la democrazia” in Uganda subirà “conseguenze”.

Bobi Wine, cantante e deputato, 38 anni principale antagonista del presidente Museveni, 76 anni

“La repressione si è intensificata in tutta la società, non solo contro i difensori dei diritti umani”, ha detto Oryem Nyeko, ricercatore di Human Rights Watch. Secondo Nyeko, “le cose sono peggiorate con l’avvicinarsi delle elezioni”. Dalla sua ascesa al potere, Museveni ha vinto ogni elezione con un ampio margine e i risultati sono stati spesso viziati da irregolarità o violenze. Il leader 76enne si ripresenta grazie a un emendamento costituzionale approvato dal suo partito, che ha tolto il limite di età alla presidenza. La campagna è stata molto condizionata dalla pandemia di coronavirus, che è servita, inoltre, come scusa per snaturare ulteriormente un gioco elettorale già sbilanciato. Secondo Amnesty International, le misure prese per limitare la diffusione dell’epidemia sono state “strumentalizzate” per intimidire l’opposizione e gli avversari del presidente uscente. Museveni è un osso duro, sopravvissuto a mille traversie, accreditatosi come il garante della stabilità di una nazione strategica per gli interessi internazionali e gli equilibri regionali. Si è schierato con l’Occidente per la missione di pace in Somalia e ha accolto più di un milione di profughi dal Sud Sudan, riuscendo a capitalizzare tutto a suo favore. Il potere è saldamente e solo nelle sue mani: controlla l’esercito e ogni ganglio dello Stato.  E come potrebbe essere altrimenti, visto che governa il paese dal 1986, quando il presidente degli Stati Uniti era Ronald Regan e Michail Gorbaciov si cimentava appena con la Perestrojka. 

L’ex cantante reggae Bobi Wine – vero nome Robert Kyagulanyi -, il più serio concorrente di Museveni, è diventato l’obiettivo principale del regime. Popolare nella capitale Kampala e tra i giovani, il carismatico parlamentare 38enne ha visto i suoi comizi dispersi con gas lacrimogeni e manganelli, con il pretesto di tutelare la salute pubblica evitando i raduni. Al contrario, i sostenitori del presidente hanno potuto incontrarsi in barba ai divieti di assembramento, ricorda Amnesty. L’ex pop star, il cui canale Youtube l’Autorità di regolamentazione delle telecomunicazioni ugandese ha cercato di vietare, è stata arrestata o messa ai domiciliari in numerose occasioni dal 2018. Un ennesimo arresto alla fine di novembre ha provocato manifestazioni represse brutalmente da parte della polizia che ha provato 54 vittime.

Recenti scontri a Kampala tra manifestanti dell’opposizione e forze di sicurezza: 54 morti il bilancio della repressione

A fine dicembre le manifestazioni elettorali sono state bandite a Kampala e in una dozzina di distretti del paese, ufficialmente a causa dell’alto numero di contagi da Covid-19. Una decisione “codarda” secondo Wine, che viene da lui letta come un segno del nervosismo del potere. Il mese scorso, i relatori speciali delle Nazioni Unite hanno osservato che le autorità stanno conducendo una vera e propria “guerra legale” contro qualsiasi voce dissenziente. Uno dei più rinomati avvocati del Paese, Nicholas Opiyo, anch’esso critico del regime e che ha assistito Bobi Wine in più occasioni, è stato arrestato per riciclaggio di denaro, prima di essere rilasciato su cauzione a fine dicembre. Un episodio significativo delle “vessazioni giudiziarie contro l’opposizione, che sembrano strettamente legate al contesto elettorale e poggiano su accuse fittizie”, secondo gli esperti dell’Onu.

Negli ultimi mesi, inoltre, anche un’alleanza di diversi gruppi di osservatori elettorali è stata ritenuta “illegale” e sospesa. Anche quattro ONG che lavorano al processo elettorale hanno visto congelare i propri beni, perché accusate di finanziamento del terrorismo.  Stephen Tumwesigye dell’ONG Chapter Four, fondata da Opiyo per difendere le libertà civili in Uganda ha spiegato che “arrestare avvocati e attivisti per i diritti umani non ha precedenti”.

La polizia, poi, utilizza la videosorveglianza con riconoscimento facciale – fornita dal colosso cinese Huawei – contro l’opposizione piuttosto che per perseguire i veri criminali.  La stampa, infine, non viene risparmiata. A dicembre, due giornalisti che si occupavano di manifestazioni dell’opposizione sono stati feriti da colpi di arma da fuoco dalle forze di sicurezza. Alcuni giornalisti stranieri sono stati anche espulsi poche settimane prima delle elezioni e il regime sta rilasciando, con il conta gocce, gli accrediti ai media internazionali. Per Muthoki Mumo, del Committee to Protect Journalists (CPJ), le autorità “dimostrano una volontà inaccettabile di censurare la copertura” elettorale.

(Angelo Ravasi)

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