di Marco Trovato – direttore editoriale della rivista Africa
Da mesi i riflettori dei grandi media internazionali sono puntati quasi esclusivamente su Ucraina e Gaza. Nel frattempo, guerre e crisi umanitarie di proporzioni spaventose continuano a consumarsi in Africa nell’indifferenza generale. In Sudan, il conflitto esploso nell’aprile 2023 tra l’esercito regolare e le milizie paramilitari Rsf ha prodotto una delle peggiori catastrofi umanitarie contemporanee: oltre 12 milioni di persone costrette alla fuga e quasi 25 milioni a rischio fame. Nell’est della Repubblica Democratica del Congo, in particolare nelle province del Kivu, da decenni infuria un conflitto di devastante continuità, segnato da stragi di civili, violenze sessuali di massa e saccheggi sistematici. Milizie rivali, gruppi armati locali e forze straniere alimentano un caos che ha prodotto milioni di vittime e oltre 6 milioni di sfollati negli ultimi anni.

Nel nord del Mozambico, a Cabo Delgado, un’insurrezione jihadista da quasi un decennio provoca migliaia di morti e un milione di sfollati, mentre villaggi bruciano e multinazionali si contendono le ricche risorse di gas della regione. In Etiopia, dopo la cruenta guerra nel Tigray, l’instabilità si è estesa in altre regioni, spingendo milioni di persone verso l’insicurezza. Nel Sahel e nel bacino del Lago Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso, Ciad e Nigeria affrontano da anni un’escalation di violenze jihadiste e criminali: villaggi distrutti, massacri, rapimenti, migliaia di morti e ameno 10 milioni di sfollati. Crisi di questa scala – più gravi, in certi casi, di quelle in Ucraina e nei territori palestinesi – faticano però a diventare titoli in tivù e nei giornali. Perché? I motivi sono probabilmente molteplici, provo ad avanzare qualche ipotesi.
I media occidentali tendono a privilegiare conflitti percepiti come strategici per il loro pubblico: guerre che toccano energia, migrazioni, sicurezza, equilibri geopolitici. Ucraina e Gaza rispondono a queste logiche, l’Africa assai meno (ma la percezione, ovviamente, non coincide con la realtà). Qui, dove i conflitti non coinvolgono direttamente potenze occidentali, l’interesse cala. C’è poi un meccanismo di assuefazione: guerre lunghe, senza svolte clamorose, “a bassa intensità”, smettono di “fare notizia”. La cronaca quotidiana di fame, sfollamenti, epidemie non genera lo stesso impatto di un bombardamento spettacolare o di un raid improvviso. A ciò si aggiungono le difficoltà materiali: raccontare guerre lontane, in contesti pericolosi e privi di infrastrutture, costa molto, e le redazioni globali, in tempi di tagli e crisi, scelgono di investire su storie che garantiscono più visibilità, più click, più audience. E forse, più in profondità, pesa anche una questione razziale, raramente ammessa ma difficilmente negabile. Le vittime e i carnefici di queste guerre hanno la pelle nera, diversa dalla nostra: e questo, nel subconscio collettivo occidentale, riduce l’empatia, attenua l’urgenza, declassa la sofferenza. La distanza non è solo geografica o culturale: è anche visiva, simbolica, affettiva.

C’è infine un aspetto narrativo: le redazioni privilegiano storie con volti e simboli chiari, figure che il pubblico possa riconoscere e che lo inducano a schierarsi, pro o contro. Nei conflitti africani, invece, la linea tra vittime e carnefici è sfumata, le dinamiche troppo complesse per rientrare in una cornice semplice di “buoni” e “cattivi”. E dove la complessità regna, il racconto si inceppa. Forse la ragione più profonda è proprio questa: in un’epoca in cui l’opinione pubblica è più incline a tifare che a capire, prevalgono le narrazioni nette e polarizzate. Là dove non c’è un nemico da odiare e un alleato da sostenere, cala il sipario. Il risultato è un buco informativo enorme. Le emergenze africane non scompaiono: si dissolvono nel silenzio.
Editoriale del numero 6/2025 – novembre-dicembre della rivista Africa
Foto di apertura: JOHN WESSELS / AFP


