Sahel: tensioni intercomunitarie, uno sguardo oltre il concetto

di Enrico Casale
scontri in burundi

Céline Camoin

Suona in questi giorni il campanello d’allarme securitario e umanitario sulla linea sudorientale del Sahel, teatro di tensioni “intercomunitarie” per il controllo di risorse agro-ittico-pastorali.

Il nuovo presidente del Ciad, il generale Mahamat Idriss Deby ha allertato la comunità nazionale e internazionale sull’afflusso di profughi nel suo Paese, chiedendo aiuto e provvedimenti urgenti. Deby ha indicato che 30.000 persone sono fuggite dall’Estremo Nord del Camerun, nel corso della settimana appena trascorsa, in cerca di un rifugio nell’area di N’Djamena, situata non lontano dal confine. Da mesi, inoltre, il confine orientale ciadiano è la porta d’ingresso a rifugio per gente in fuga dal Darfur occidentale, in Sudan, scosso da tensioni definite intercomunitarie, a volte persino “tribali”.

Secondo agenzie umanitarie dell’Onu, sono complessivamente almeno 360.000 i rifugiati sudanesi in Ciad. Lo stesso Ciad, nelle sue regioni dell’est, del sud e del lago Ciad, è sempre più spesso teatro di conflitti definiti “intercomunitari”, un concetto forse riduttivo che non aiuta a comprendere le motivazioni fondiarie, economiche e climatiche, ma neanche quelle dovute a una scarsa gestione politica, che spingono gruppi di persone ad affrontarsi con la violenza.

Gli ultimi scontri in ordine di tempo sono quelli avvenuti nel dipartimento del Logone e Chari – dal nome dei due fiumi eponimi – dell’Estremo Nord del Camerun. Un dipartimento lontano dalla capitale camerunese Yaoundé, una lunga lingua di terra stretta tra il Ciad, a est, e la Nigeria, a ovest, caratterizzato da un alto tasso di povertà, di analfabetismo, da condizioni atmosferiche sempre più difficili, e anche dalla paura della violenza delle incursioni del gruppo radicale Boko Haram.

Questa volta, le tensioni sono scoppiate nella zona del Logone Birni, in località Mouloumsa, il 5 dicembre, a causa di una discussione tra allevatori arabi choa e pescatori mousgoum alleati della comunità massa. Il conflitto si è esteso a diverse località, fino ad arrivare l’8 dicembre a Kousseri, a due passi dal confine con il Ciad, dove le tensioni si sono prolungate fino all’indomani. In diversi villaggi, sono stati incendiati edifici, mercati, e un numero non ancora ben preciso di persone, soprattutto uomini, è stato ucciso. Fonti non governative riferiscono di una trentina di morti, mentre le fonti ufficiali riportano bilanci inferiori, che complessivamente raggiungerebbero una decina di morti.

Una delegazione governativa camerunese di alto livello, guidata dal governatore dell’Estremo Nord Midjiyawa Bakari, era in visita nei villaggi del dipartimento, lo scorso fine settimana, per tentare una mediazione e portare le comunità alla pace.

Tuttavia, questo tipo di conflitti non è nuovo e questa ennesima fiammata suscita critiche indirizzate al governo, accusato di aver trascurato la gestione di queste problematiche da troppo tempo. Una delle voci del coro dell’opposizione, quella di Edith Lah Walla, del Cameroon people’s party, denuncia il fallimento dello Stato e ricorda che “un dei ruoli fondamentali dello Stato è proprio l’amministrazione del territorio per garantire l’uso ottimale, equo e sostenibile delle risorse da parte di tutti i cittadini. Per decenni il regime di Paul Biya ha giocato con questi conflitti senza un vero sforzo per trovare soluzioni”, ha sostenuto.

Simili accuse di trascuratezza dal parte del governo centrale sono mosse in Ciad nei confronti del regime di N’Djamena – che per tre decenni è stato guidato dal padre dell’attuale presidente, il maresciallo Idriss Deby Itno – per non aver mai saputo trovare la soluzione ai conflitti tra comunità di pastori e coltivatori, che in passato le stesse comunità cercavano di risolvere pacificamente.

Ma la circolazione di armi, l’impunità, la povertà, la mancanza di istruzione, tendono a spingere gli attori nel circolo della violenza, così come accade nel Darfur, regione già segnata da un conflitto tra fazioni ribelli, in cui ha avuto un peso anche la contesa delle risorse agropastorali.

L’esaurimento delle risorse naturali a causa di disastri naturali, compresi i pascoli e l’accesso all’acqua, ha esacerbato tensioni tra pastori e agricoltori. Il cambiamento climatico ha modificato le rotte e i periodi della transumanza del bestiame. Altre aree prima aride sono ora fertili o accessibili alla pesca, creando competizione e conflitti aperti tra le comunità per il controllo di queste risorse.

Un rapporto realizzato per l’Ieed (International institute for environment and development) e pubblicato a ottobre 2020 sottolinea tuttavia che “l’idea largamente diffusa che le categorie di agricoltori e gli allevatori corrispondono a identità e gruppi inevitabilmente opposti in feroce competizione per le scarse risorse occulte nasconde una lunga storia di complementarietà e cooperazione. Storie peggiorative e caricature della pastorizia continuano a caratterizzare i dibattiti nei circoli politici e mediatici nazionali, nonostante i risultati di diversi decenni di ricerche che ne hanno dimostrato l’infondatezza”. I ricercatori autori del rapporto suggeriscono che i teorici e i politici smettano di presentare la pastorizia come un sistema arcaico e improduttivo, alle prese con un ambiente naturale ostile e povero di risorse. “Al contrario, è necessario considerare gli ambienti aridi come un ambiente la cui variabilità è una caratteristica strutturale che i sistemi pastorizi specializzati sanno sfruttare al meglio per una produzione alimentare sostenibile”, scrivono Saverio Krätli e Camilla Toulmin, invitando ance i governi a investire in infrastrutture “immateriali”, oltre a infrastrutture fisiche. “Gli individui hanno bisogno di organizzazioni credibili e legittime per organizzare la gestione dello spazio, l’accesso a risorse e gestire le relazioni tra i gruppi socio-professionali”.

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