Reportage dalla Tanzania: l’infinita strage degli elefanti

di AFRICA

Il florido mercato nero dell’avorio spinge i bracconieri a introdursi nelle aree protette per uccidere i pachidermi e impossessarsi delle preziose zanne. I ranger dei parchi, mal equipaggiati, devono combattere contro nemici potenti e invisibili.

La Land Rover s’infila in una pista fangosa tra l’erba alta della savana. È la stagione delle piogge: il cielo tra Ngorongoro e il Lago Manyara è gonfio di cumuli grigi e il fuoristrada arranca tra le pozze d’acqua. «È in questi mesi che i bracconieri sono più attivi – dice il capo della pattuglia –. I turisti sono rari e c’è meno sorveglianza». La jeep si ferma a poca distanza da un branco di elefanti. I ranger caricano i fucili, attivano il gps e sciolgono i cani, che seguono le tracce fino a una radura circondata da acacie spinose. Il terreno è disseminato di ossa, femori, vertebre, costole e, in mezzo, un cranio privo di zanne: i resti di uno dei 60.000 elefanti massacrati in Tanzania negli ultimi cinque anni.

In Africa è in corso una guerra feroce, dai contorni opachi e di cui poco si parla: combattuta nell’ombra e dall’esito incerto. Firmando nel 2014 la Dichiarazione di Londra, 46 Paesi si sono impegnati ad abolire il commercio di avorio e di corno di rinoceronte. Ma i pachidermi continuano a essere abbattuti su scala industriale. I bracconieri sono la manodopera a basso costo di un racket transnazionale che dispone di armi, coperture economiche, protezioni politiche, strutture logistiche e una rete di contrabbandieri che alimenta un business da 20 miliardi di dollari l’anno: un fiume di denaro sporco che ingrassa i conti bancari delle organizzazioni mafiose cinesi e africane, diffonde il cancro della corruzione e finisce per finanziare le attività di alcuni dei gruppi terroristici più pericolosi al mondo.

Pechino e Washington

I profitti sono stellari. Il corno di rinoceronte è fatto di cheratina e non ha proprietà terapeutiche. Ma un chilo di polvere di corno, ritenuta in Cina e in Vietnam un miracoloso rimedio per una serie infinita di malattie, dal cancro all’impotenza sessuale, ha un valore medio di mercato di 80.000 dollari e può arrivare a 200.000: molto più di cocaina, oro e platino. Il prezzo dell’avorio alla borsa nera oscilla tra i 1200 e i 2400 dollari al chilo. Le zanne di un elefante adulto maschio, ciascuna sui 60-70 chili, possono valere più di 300.000 dollari.

In Asia e soprattutto in Cina, principale Paese importatore (il “fabbisogno” stimato è di 200 tonnellate l’anno), la domanda è lievitata in modo esponenziale nell’ultimo ventennio: la crescita economica ha generato un esercito di consumatori di beni di lusso.

Dal 1 gennaio di quest’anno, la Cina – su pressioni della comunità internazionale – ha ufficialmente vietato il commercio dell’avorio, ma è presto per capire se questa storica decisione riuscirà a frenare la strage degli elefanti africani: un secolo fa erano cinque milioni, oggi ne restano meno 350.000.

Gli Stati Uniti, nonostante le severe norme vigenti, sono – anche se a molta distanza dalla Cina – il secondo mercato mondiale e uno snodo fondamentale della filiera verso l’area del Pacifico. Prima di lasciare la Casa Bianca, Obama ha firmato un ordine che obbligava il Paese a intensificare la lotta al contrabbando. Nel 2015 il governo federale ha varato un bando quasi totale alla vendita di manufatti in avorio. Ma oggi a Washington governa Donald Trump. L’ambiente non è più una priorità. In America si continua a commerciare avorio online per oltre 2,5 milioni di dollari al mese e la legge consente di importare avorio antico e oggetti d’arte: è facile per i trafficanti spacciare prodotti nuovi per pezzi di antiquariato.

Network criminale

Quantitativi non irrilevanti di avorio entrano nel circuito della devozione religiosa sotto forma di amuleti e statuette buddhiste o cattoliche, croci copte e rosari islamici. Ma l’oro bianco serve anche a finanziare il jihad e i gruppi armati, da Boko Haram ai Janjaweed del Darfur. I guerriglieri ugandesi del Lord’s Resistance Army di Joseph Kony, i bracconieri del Sud Sudan e le milizie congolesi hanno abbattuto migliaia di elefanti a colpi di kalashnikov. E, secondo l’Elephant Action League, il contrabbando di avorio proveniente dal Kenya procura agli Shabaab somali il 40 per cento dei loro fondi.

Le ramificazioni occulte e la dimensione globale del commercio di avorio, corno di rinoceronte e animali a rischio di estinzione sono ben descritte nel libro-inchiesta Killing for Profit del giornalista sudafricano Julian Rademeyer, che ha svolto un’indagine approfondita sullo Xaysavang Network, ritenuto da Washington «il più potente e prolifico racket internazionale dedito al contrabbando di avorio e di specie rare». Il capo dell’organizzazione, su cui pende una taglia di un milione di dollari del dipartimento di Stato, è un laotiano che vive tra la capitale Vientiane e un compound fortificato in un villaggio sulle rive del Mekong: è Vixay Keosavang, “il Pablo Escobar del traffico di animali protetti”.

Valigie diplomatiche

Come ogni boss mafioso, Keosavang mostra un volto rispettabile: amministratore di una società di import-export (Xaysavang), vicepresidente del comitato nazionale di nuoto e di boxe, interessi in un’azienda statale di costruzioni e contatti con la nomenklatura locale che lo rendono intoccabile. L’arresto in Sudafrica del suo più stretto collaboratore, Chumlong Lemtongthai, condannato a 30 anni di prigione, ha permesso di mappare almeno in parte le attività del racket: traffico di avorio e corno, di ossa di tigri e di leoni, di animali protetti come i pangolini, i cobra reali, i macachi. Un solo ordinativo riconducibile a Keosavang elenca 70.000 rettili, 20.000 tartarughe e altrettante lucertole rare, per un valore di 860.000 dollari.

L’avorio viaggia anche nelle valigie diplomatiche. Nel 2015, il Sudafrica ha espulso un funzionario dell’ambasciata della Corea del Nord che trasportava sull’auto di servizio cinque chili di corno e centomila dollari in contanti. E l’Eia (Environmental Investigation Agency) ha documentato numerosi casi di diplomatici nordcoreani implicati nel traffico in Zambia e Zimbabwe. Ma sono cinesi i big del contrabbando. Zanzibar è nota alla Dea americana per essere uno hub del traffico di armi e di droga. Ma è anche, con Mombasa e Dar es Salaam, il principale porto di imbarco dell’avorio africano.

Sterminio inarrestabile?

A poca distanza da Stonetown, dove i turisti vanno in cerca della casa natale di Freddy Mercury e inseguono le fatiscenti vestigia dell’antico sultanato, i cargo ormeggiano a un molo di pietra piantonato da militari armati. Sulla banchina sono accatastati centinaia di container che nessuno controlla. «I trafficanti – spiega la direttrice dell’Eia, Mary Rice – utilizzano società fittizie e operano attraverso agenti locali che corrompono poliziotti e doganieri. Tonnellate di avorio grezzo partono ogni mese per l’Estremo Oriente nascoste in container che ufficialmente trasportano merce legale».

La strage è in atto in tutto il continente. Paul Allen, il cofondatore di Microsoft, ha finanziato un censimento aereo, dai risultati sconfortanti. In sette anni, la popolazione di elefanti è calata del 30 per cento (corrispondente a 144.000 esemplari) nell’insieme di 15 Paesi monitorati. Nella Rd Congo gli esemplari rimasti non sono più di 7.000: erano 100.000 nel 1980. Il Mozambico ha perso in soli cinque anni la metà dei suoi 20.000 elefanti, ammazzati a raffiche di mitra o avvelenati. In Sudafrica, che ha una popolazione di 21.000 rinoceronti (l’80 per cento del totale mondiale), il 2015 si è chiuso con un bilancio di 1175 animali uccisi e con l’annullamento della norma che vietava la commercializzazione del corno.

Cimitero tanzaniano

Negli ultimi due anni il numero dei rinoceronti abbattuti è raddoppiato in Zimbabwe e quadruplicato in Namibia. Ma il killing field degli elefanti, il Paese dove il massacro è stato più sistematico, è la Tanzania, primo esportatore al mondo di avorio illegale. Nel decennio 2005-15, l’era del presidente “JK”, Jakaya Kikwete, la Tanzania ha perso quasi il 70 per cento dei suoi elefanti. Nel traffico di avorio erano coinvolti ministri, parlamentari, membri del partito di governo, uomini d’affari, alti ufficiali dell’esercito e della polizia, lo stesso figlio del capo dello Stato. Mentre gli arabi del Golfo ottenevano da JK vaste concessioni di caccia e l’autorizzazione a costruire strade e piste di atterraggio per i loro safari, gli elefanti venivano macellati a decine di migliaia: 30.000 in due anni solo nel Selous, un’area “patrimonio universale dell’Unesco” grande il doppio del Belgio, con la più vasta popolazione di elefanti dell’intera Africa.

Nel parco del Ruaha sono scesi da 34.000 a meno di 8.000. E ora si stanno intensificando gli attacchi nei parchi del nord: Tarangire, Lago Manyara e Serengeti, dove un anno fa i cacciatori di frodo hanno abbattuto l’elicottero che li stava braccando uccidendo il pilota, Roger Gower, in missione di pattugliamento.

Vera guerra

Le strategie di contrasto messe in atto da ong, governi, privati e organismi internazionali sono molteplici. E le opinioni divergono. Gli allevatori sudafricani di rinoceronti affermano che per colpire il traffico illegale bisogna legalizzare il commercio di corno. Mike Angelides, presidente della Hunters’ Association di Arusha, sostiene che i veri conservazionisti sono i cacciatori: «È nel nostro interesse proteggere la fauna. E i proventi di una caccia sostenibile si possono investire nella salvaguardia dell’ecosistema». C’è chi punta sulle tecnologie avanzate: radar, droni, sensori e satelliti per monitorare porti, strade, carichi e spostamenti sospetti. E chi è a favore dell’approccio militare.

Sono sempre più numerosi gli ex incursori delle forze speciali britanniche, i marines reduci dall’Iraq o dall’Afghanistan e i mercenari che in Africa hanno scoperto un nuovo campo di battaglia. Come l’australiano Damien Mander, che in Zimbabwe, Mozambico e Sudafrica addestra i ranger alle tecniche di reazione rapida e di assalto sperimentate a Baghdad. Sparare a vista ai bracconieri, però, non disturba più di tanto la mafia dei grandi trafficanti. La manovalanza si rimpiazza facilmente.

Ranger masai

I cacciatori di frodo sono talvolta professionisti dotati di fucili di precisione e di visori notturni in grado di abbattere un elefante con un solo proiettile, e coadiuvati da squadre di specialisti nell’espianto delle zanne. Molto più spesso sono contadini che cacciano per sfamare la famiglia e arrotondare i magri guadagni vendendo carne di animali selvatici sul mercato locale: il racket non fatica a reclutarli.

I risultati più incoraggianti si ottengono con una strategia integrata. Damian Bell, che ad Arusha guida la fondazione Honeyguide, mi accompagna a Kakoi, un villaggio masai ai margini del Tarangire. Le mandrie di vacche e le greggi di pecore e capre si spingono fino al limite del parco. Le comunità locali entrano inevitabilmente in conflitto con la fauna selvatica. Leoni e iene uccidono il bestiame, un elefante può distruggere in una notte un campo coltivato. «Noi interveniamo in tre modi – spiega Damian –. Procuriamo i mezzi per allontanare i predatori e i pachidermi (sistemi di protezione, potenti torce, razzi luminosi); dotiamo i ranger di armi, veicoli, cani addestrati, binocoli, radio; e forniamo incentivi ai villaggi in cambio di informazioni sui bracconieri. Pastori e contadini sono i primi difensori dell’ambiente, quando ne traggono un vantaggio economico».

Peperoncino e intelligence

Babaetu Saitabau è il responsabile degli scout di Kakoi. «Gli elefanti – dice – si avvicinano ogni notte ai campi di mais e di sesamo. Ma non è difficile scacciarli». Se razzi e torce non bastano, i volontari intervengono lanciando le pili-pili bombs, preservativi imbottiti di polvere di peperoncino in cui è inserito un detonatore: esplodono in aria rilasciando una nuvola urticante che mette in fuga i pachidermi. Un’altra difesa efficace sono gli alveari collocati attorno alle coltivazioni: gli elefanti hanno il terrore delle api e si tengono alla larga.

Contro il racket dell’avorio l’arma di gran lunga più efficace è l’intelligence. Michel Lanfrey, esperto di sicurezza con un passato nella Legione straniera, collabora con la Ntsciu, la task force antibracconaggio della Tanzania. La sua società, Askari Maritime, creata per combattere la pirateria somala e difendere le piattaforme off-shore, si è riciclata nell’attività investigativa. «Abbiamo un’estesa rete di informatori – racconta –. E non ci limitiamo a far arrestare i bracconieri: il nostro obiettivo è smantellare il network criminale. Applicando le tecniche dell’antiterrorismo siamo riusciti a sequestrare ingenti quantitativi di armi e di avorio».

Pugno duro

Bruciare le zanne confiscate, come ha fatto il Kenya un anno fa, dando fuoco a uno stock di 106 tonnellate, è un atto simbolico di impatto mediatico. Ma per vincere la guerra dell’avorio serve un ampio schieramento di forze. «I ranger e gli apparati di sorveglianza nei parchi sono l’ultima linea di difesa della fauna – afferma Wayne Lotter della Pams Foundation, da anni sulla breccia –. Ma l’attacco decisivo dev’essere sferrato nelle città, dove colpire i capimafia e i loro protettori. In un anno, coordinandoci con la Ntsciu, abbiamo neutralizzato più di mille trafficanti e bracconieri».

Il nuovo presidente della Tanzania John Pombe Magufuli, detto “il Bulldozer”, sembra deciso a voltare pagina: ha licenziato dozzine di funzionari corrotti, molti dei quali sono stati incriminati per frode, e ha promesso di stroncare il bracconaggio, che nuoce all’immagine del Paese e danneggia il turismo. La task force tanzaniana ha già messo a segno due grossi colpi: l’arresto di Boniface Mariango, alias Shetani (“demonio” in kiswahili), il bracconiere più ricercato dell’Africa orientale, responsabile dell’uccisione di migliaia di elefanti; e la cattura a Dar es Salaam della cinese Yang Fenglan, 66 anni, nota come “la Regina dell’avorio”.

Futuro incerto

Yang, boss di una rete criminale che ha spedito in Cina tonnellate di oro bianco, era approdata in Africa nel 1975 come interprete per la società che costruiva la ferrovia Tanzania-Zambia. Nel 1998 aprì a Dar es Salaam il primo di una serie di ristoranti cinesi utilizzati come copertura per il racket. Le zanne venivano tagliate nei retrobottega, imballate con prodotti ittici e merci generiche, consegnate a spedizionieri di fiducia e spedite in Cina dai porti di Zanzibar e della costa.

Per oltre un anno, grazie a una soffiata, la task force e la Pams Foundation è stata sulle sue tracce: controllavano movimenti bancari, comunicazioni telefoniche, contatti web, numeri di serie delle armi sequestrate. Yang, sentendosi alle strette, era fuggita in Uganda. Poi, nell’ottobre 2015, tornata a Dar per vedere la nipote, è stata intercettata. Una battaglia vinta. Ma il nemico più potente, e sempre più aggressivo, è il mercato: se la domanda di avorio non sarà arginata, la strage non si fermerà.

Ad Arusha, un anno fa, un sicario ha tagliato la gola di Emily Kisamo, un dirigente dell’ente nazionale dei parchi tanzaniani che stava preparando un rapporto con i nomi dei politici e dei funzionari implicati nel traffico di zanne. Il dossier non è mai stato ritrovato.

(Giovanni Porzio)

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1 commento

Manuela 11 Febbraio 2019 - 20:45

Amo chi aiuta gli elefanti,….. Auguro a tutti quelli che fanno del male agli elefanti che possa succedere ai loro figli, il male assoluto…. Voi siete dei grandi e io vi voglio aiutare

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