Reportage da Maiduguri, la città nigeriana dove è nato Boko Haram

di AFRICA

Il racconto esclusivo dalla capitale dello Stato del Borno, nel Nord-est della Nigeria, dove tre milioni di persone vivono nel terrore sotto il fuoco incrociato dell’esercito e dei jihadisti.

All’aeroporto mi accoglie uno spietato sole che arroventa la pista deserta dello scalo. Attraverso le strade di Maiduguri a bordo di un pick-up, in compagnia della mia guida Mohammed, che ad ogni incrocio mi illustra i luoghi teatro di attacchi di Boko Haram. «Uno dei modi più perfidamente raffinati di attaccare la città era di farlo da un lato, dalla strada est, ad esempio – mi spiega –. Cercavano di entrare con mezzi blindati, mitragliatrici automatiche, lanciarazzi di ultima generazione. L’esercito si organizzava per difendere quella zona e nel frattempo i suicide bombers, vera maledizione di questo conflitto, si infiltravano come serpenti negli altri quartieri della città lasciati sguarniti. Imbottiti di tritolo, i kamikaze raggiungevano gli assembramenti umani e… bum! si facevano saltare in aria».

Centinaia di deflagrazioni assordanti, paurose che hanno tranciato arti, straziato corpi, dilaniato adulti e bambini. Maiduguri è la seconda città del Nord della Nigeria nonché la capitale dello Stato del Borno. Alcuni commentatori nigeriani l’hanno battezzata «la bocca del diavolo»: perché è anche la patria di Boko Haram. Dal punto di vista economico, è la porta dei commerci tra Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Per la sua posizione strategica, e la sua importanza simbolica, Maiduguri è stata a lungo ambita dai fondamentalisti. A oggi, il conflitto ha provocato 20.000 morti (in gran parte musulmani), i profughi sono 3 milioni e i danni provocati sono stimati in 10 miliardi di dollari.

Zone off limits

Accanto all’imponente Moschea Centrale spicca il palazzo dello Shehu, il leader religioso del Borno (autorità tradizionale dello stesso rango dell’Emiro di Kano o del Lamido di Yola). Alle sue spalle si dipana un dedalo di viuzze di sabbia avvolte in un silenzio quasi irreale. «Questa è stata per anni la zona più pericolosa della città – dice Mohammed –. Qui dentro, e poi verso il quartiere di Mofani, si sono annidati tra la gente gli uomini di Boko Haram. Queste strade erano completamente off limits. Anche in pieno giorno, al minimo dubbio che qualcuno potesse essere una spia o un informatore della polizia, gli Yusufia – i seguaci di Yusuf, il fondatore di Boko Haram – sparavano a vista, lasciando come monito i cadaveri per strada».

Mi guardo attorno. Il quartiere è devastato, i muri crivellati o distrutti. Qualche bambino gioca per strada, uomini nei loro jampa, le lunghe vesti maschili, trascinano le bici sulla sabbia. Donne coperte dall’hijab trasportano enormi sacchi sulla testa. Piccole moschee spuntano un po’ dappertutto, molte in ricostruzione. Nel 2015, all’apice dell’insurrezione e all’inizio del governo del presidente Mohammud Buhari, il comando generale dell’esercito venne temporaneamente spostato da Abuja a Maiduguri. I militari rastrellavano le vie e sparavano al primo sentore di pericolo. «A quei tempi – ricorda Mohammed – Boko Haram tendeva imboscate per le strade alle pattuglie di poliziotti o militari. Si udivano spari, colpi di mortaio. La gente scappava il più lontano possibile. Entro pochi minuti sarebbero arrivati i blindati dell’esercito, per puntare i loro cannoni contro le case, le strade, i pochi negozi rimasti. L’obiettivo era distruggere, radere al suolo, stanare, far piazza pulita».

L’epicentro del terremoto

Continuiamo il viaggio, Mohammed vuole mostrarmi Galadima, un altro quartiere ad alto rischio, “liberato” dall’esercito solo pochi mesi fa. Entriamo in una zona conosciuta con il nome di Railway Terminus, per la presenza di una vecchia stazione ferroviaria di epoca coloniale, una piccola costruzione verde e bianca corrosa dal tempo e dell’incuria.

Viaggiamo su una strada sconnessa. Tutto è distrutto, i muri delle case sono stati rasi al suolo. C’è poca gente per strada. «Alla tua destra – dice Mohammed, senza fare cenni per indicare – c’era la casa di Mohammed Yusuf, che ha creato Boko Haram».

Yusuf: quante volte questo nome è entrato nelle cronache dei giornali in tutto il mondo? Yusuf sta a Boko Haram come al-Baghdadi sta all’Isis. È stato il fondatore, il leader, il predicatore, l’ideologo di un terrificante gruppo jihadista che ha seminato terrore e morte. «L’esercito ha distrutto tutto, ha raso al suolo l’abitazione. Da qua era cominciata la predicazione di Yusuf; le case attorno sono nell’epicentro del terremoto che ha devastato questa regione e continua a scuoterne la popolazione».

Yusuf fu catturato e ucciso nel 2009 dalle forze armate nigeriane. La sua morte ha avviato una fase di violenze ancor più acuta, dal sapore di vendetta, guidata da Abubakar Shekau, l’attuale sanguinario leader di Boko Haram. In queste strade si ha davvero l’impressione di essere nella bocca del diavolo, di sentirne la lingua ingolosita e letale. L’autista si accorge del mio disagio e accelera per uscire in fretta dal quartiere. Sulla via del ritorno imbocchiamo Damboa Road e raggiungiamo uno dei primi grossi campi di profughi a Maiduguri: Bakasi Camp.

Un tempo era una zona residenziale abitata da funzionari statali, oggi è un ammasso di tende e rifugi di fortuna dove sono accatastate decine di migliaia di persone. Nugoli di bambini vanno in giro con pantaloncini laceri, scalzi sulla sabbia rovente, magliette stracciate. Al termine della visita, la macchina fa mezzo giro per tornare verso luoghi più sicuri. Incrociamo una giovane donna, alta, elegantissima nel suo hijab rosso porpora. Camminando, alza nuvole di sabbia con le ciabatte che battono la terra. Ci guarda con sguardo fiero e, mentre attraversa la strada, il vento sposta il velo sui suoi occhi. Chissà se è ancora viva. Quella stessa notte sulla Damboa Road quattro terroristi suicidi si faranno esplodere facendo morire altre 19 persone.

(di Roberto Morel)

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