Perché i rimpatri non funzionano

di claudia
migranti

di Meraf Villani

Malgrado la propaganda della destra, i numeri sui rimpatri dei migranti irregolari sono impietosi e raccontano il fallimento delle (costosissime) politiche di espulsione. Solo l’accordo con la Tunisia sembra funzionare. Ma la gran parte dei rimpatriati riprova, appena può, ad attraversare il Mediterraneo

Si parla di “espulsione” quando si fa riferimento al rimpatrio di un migrante che si ritiene non avere i requisiti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale.

Espellere dà proprio quell’idea di eliminare, levare di mezzo qualcosa che ci reca fastidio, spesso senza tenere in considerazione le storie singole di ciascun migrante al di là del fatto che provenga o meno da un cosiddetto “Paese sicuro”. Nella maggior parte dei casi il soggetto viene considerato migrante economico, pertanto non bisognoso di protezione internazionale.

Quello dei “rimpatri” è un tema evocato dalla destra ad ogni campagna elettorale. Ma un conto sono gli slogan della propaganda, un conto è governare. Al momento, l’Italia ha siglato accordi bilaterali con pochi Paesi africani. E solo quello con la Tunisia sembra funzionare. L’intesa con Tunisi permette di organizzare in media due charter a settimana da 40 persone. Nel 2021 su 3.400 rimpatriati, 1.900 erano di nazionalità tunisina. La facilità e celerità con cui i rimpatri avvengono sollevano dubbi di legittimità, mancato rispetto o addirittura violazione della normativa comunitaria, la quale prevede che la domanda di ogni richiedente asilo venga esaminata nella sua singolarità e unicità.

Un altro dato fa riflettere: buona parte dei tunisini che sbarcano a Lampedusa sono già stati oggetto, in passato, di provvedimenti di espulsione e rimpatrio. Non appena tornano a casa, il tempo di riorganizzarsi e riprovano la traversata. Anche 5 volte, 7, 10… Non solo. I migranti che effettivamente sono stati rimpatriati rappresentano una percentuale bassa rispetto ai 25.000 provvedimenti di espulsione emessi dalle varie autorità statali competenti. Il Marocco coopera alle procedure di rimpatrio ma a precise condizioni: impiego di voli di linea e di almeno due agenti per la scorta di ogni migrante. I costi sono elevati, però sono circa mille le persone accettate ogni anno. L’Egitto e l’Algeria si fanno carico di identificare gli irregolari e accettano i trasferimenti, così come Gambia e Nigeria.

I problemi sono i tempi di attuazione dei procedimenti e le spese da sostenere. Il costo per un rimpatrio non è mai inferiore ai 10.000 euro, cifra considerevole anche se le risorse vengono in gran parte compensate con i fondi europei. L’Italia spende tra gli 8 e 10 milioni di euro l’anno per sostenere le spese dei rimpatri (essenzialmente i costi dei trasporti e di custodia). Certamente si tratta di una spesa importante, motivo per cui il nostro Paese ha chiesto più volte all’Unione Europea di farsi carico delle procedure.

Altra spina nel fianco del governo: i migranti irregolari recidivi. Il Paese di destinazione (che è poi il Paese originario del migrante) dovrebbe garantire che l’espulso non ritenti il viaggio per l’Italia, fornendo anzitutto alternative (opportunità di formazione e di lavoro) alla scelta migratoria. Ma gran parte di tali attività restano sulla carta. Non solo. La scarsa coordinazione e collaborazione tra le autorità rende difficile anche solo ottenere i documenti che accertino l’identità dei migranti irregolari, i quali, naturalmente, dal canto loro cercano di far perdere le proprie tracce una volta ricevuto un decreto di espulsione. I Centri di Permanenza in Italia – sorta di prigioni per i migranti in attesa di espulsione – sono pochi, sovraffollati, spesso presentano condizioni critiche e costano quasi 45 milioni. I problemi, intendiamoci, sono comuni ad altri Paesi europei: nel 2021 il numero di provvedimenti di espulsione a livello europeo è cresciuto del 5%, mentre quello dei rimpatri portati a termine è diminuito del 6%. Ma più in genere emerge il fallimento della politica dei rimpatri così com’è oggi concepita: la volontà di espellere il prima possibile coloro che non sono graditi fa sì che ci si dimentichi di migliorare il sistema nel suo insieme. Lo scopo non dovrebbe essere punitivo, in quanto un buon sistema di rimpatrio dovrebbe basarsi sulla creazione di alternative reali nel Paese d’origine, creandovi le opportunità che i soggetti cercano altrove a rischio della stessa vita.

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