Narrative decoloniali di artisti africani in mostra a Napoli

di claudia

Prende il via domani, sabato 25 giugno, al Maschio Angioino di Napoli la mostra “Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare”. Più di cinquanta le opere esposte, un dialogo tra quelle storiche del periodo coloniale e i lavori di dodici artisti contemporanei della diaspora, che da anni lavorano sulla questione coloniale e post-coloniale. La mostra resterà aperta fino al 25 agosto 2022. Ingresso gratuito.

Si inaugura domani sabato 25 giugno alle ore 17.30 al Maschio Angioino la mostra Il Cono d’Ombra, un progetto di Andrea Aragosa per Black Tarantella e FM Centro per l’Arte Contemporanea, in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, con il patrocinio della Regione Campania, del Comune di Napoli e della Mostra D’Oltremare.

L’esposizione a cura di Marco Scotini, direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano, raccoglie più di 50 opere, fra cui opere storiche del periodo coloniale in dialogo con i lavori di 12 artisti contemporanei appartenenti alla diaspora africana ed è allestita in due spazi di Castel Nuovo: Antisala dei Baroni nell’ala nord, al primo piano e Sala dell’Armeria, al piano terra. Gli stessi spazi che furono parte della Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale tenutasi proprio a Napoli, nel Maschio Angioino, dal 1 ottobre 1934 al 31 gennaio 1935.

Kiluanji Kia Henda, The Great Italian Nude, 2010, Courtesy Galleria Fonti – Napoli

La mostra Il Cono d’Ombra è dedicata a Lidia Curti (1932-2021), co-fondatrice del Centro Studi Postcoloniali e di Genere di Napoli. Resterà aperta fino al 25 agosto 2022 e si potrà visitare gratuitamente dal lunedì al sabato dalle 10 alle 17.

Nonostante oggi la rimozione del passato coloniale italiano sia stata compensata da una ricca mole di studi storici e accademici, rispetto a venti anni fa, la mostra Il Cono d’Ombra muove dalla necessità di trovare altre categorie concettuali (più sperimentali e meno canoniche), per ripensare quell’esperienza storica in un mutato contesto politico-sociale.

Ancora lontano dall’essere una eredità contestata, la politica coloniale fascista in Italia è stata oggetto di ben poche occasioni espositive e di riconfigurazione critica degli oggetti museali accumulati. La felice coincidenza di poter riallestire a Napoli, nello stesso complesso monumentale, quella che fu la vera e propria anticipazione della imperiale Triennale d’Oltremare del 1940, rappresenta la giusta occasione per poter agire all’interno di quell’esperienza, oltre ogni lettura storicamente corretta e plausibile. Non si tratta più di ricostruire un insieme di fatti per integrarli nella conoscenza comune. In gioco c’è la stessa possibilità di lasciar parlare quella alterità che per secoli ha rappresentato un “cono d’ombra” della civiltà e a cui l’occidente si è rivolto in modo paternalistico, come qualcosa da emancipare.

Quando si tiene la Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale, siamo negli anni Trenta: una decade aperta con la più grande esposizione coloniale del secolo inaugurata a Parigi, al Bois de Vincennes nel maggio 1931. Napoli, in quel periodo, è pronta a diventare il principale dei porti coloniali e la sede ideale per una proiezione ideologica e di conquista con il sud del Mediterraneo. Vista la presenza in città di una delle associazioni più antiche del nazionalismo colonialista come la Società Africana d’Italia e l’istituto Orientale. Allo stesso tempo, sono questi gli anni del passaggio dal carattere economico-commerciale del colonialismo italiano della fase liberista a quello propagandistico-consensuale del tempo fascista.  

Gli aspetti innovativi della mostra al Maschio Angioino del 1934-35, rispetto alle mostre coloniali precedenti, sono improntati dalla fabbrica del consenso fascista e si riassumono nell’invito di otto artisti italiani a ritrarre le colonie in presa diretta, nella volontà di far risalire al quattrocento veneziano la vocazione orientalista e colonialista della pittura italiana, nella ricostruzione di un villaggio indigeno nel fossato di Castel Nuovo. Tutti elementi che anticipano e che confluiranno nella Triennale d’Oltremare del 1940, con cui si rapporta anche Il Cono d’Ombra.

Pamina Sebasti+úo, Death by Registration, 2021, Courtesy Galleria Fonti – Napoli

Dopo aver raccolto – in archivi privati e istituzioni pubbliche – molti documentipubblicazionifoto e lavori originali presenti in quelle esposizioni, la posta in gioco di Il Cono d’Ombra è di far riallestire queste memorie culturali (oggetti idiosincratici e assemblaggi eterogenei) agli artisti africani che da anni lavorano sulla questione coloniale e post-coloniale.

In qualche modo superare la sempre presunta “innocenza bianca” sarà possibile solo attraverso una contro-narrazione condotta dagli ex soggetti colonizzati che, come in uno specchio rovesciato, possano aprire ad altre rappresentazioni.  

Gli artisti invitati, alcuni di fama internazionale, hanno provenienze geografiche diverse e appartengono alla diaspora africana contemporanea: Kader Attia (Algeria/Francia, 1970), Yto Barrada (Marocco, 1971), Intissar Belaid (Tunisia, 1984), Nidhal Chamekh (Tunisia, 1985), Jermay Michael Gabriel (Etiopia/Eritrea/Italia, 1997), Kiluanji Kia Henda (Angola, 1979), Delio Jasse (Angola, 1980), Ibrahim Mahama (Ghana, 1987), Muna Mussie (Eritrea/Italia, 1978), Pamina Sebastião (Angola 1988), Pascale Marthine Tayou (Camerun, 1967), Amina Zoubir (Algeria, 1983), Aimé Césaire (Martinica/Francia 1913-2008).

Foto di apertura: Amina Zoubir, The Golden Age. (Collezione MARKK Museum, Amburgo, Germania)

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