Mattarella a Maputo celebra i 30 anni della pace, ma a nord il conflitto è tornato

di claudia
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di Maria Scaffidi

Sono passati 30 anni da quando il 4 ottobre 1992, a Roma, Joaquim Chissano, presidente mozambicano e segretario del Frelimo, e Afonso Dhlakama, leader della Renamo, firmarono un Accordo di pace che metteva fine a 16 anni di guerra civile, con 1 milione di morti e oltre 4 milioni di profughi. La firma concludeva un lungo processo negoziale svoltosi presso la sede della Comunità di Sant’Egidio. E proprio in una delle sedi della Comunità si recherà oggi il capo di Stato italiano Sergio Mattarella, durante la sua visita di Stato in Mozambico. 

L’allora segretario generale dell’Onu, Boutros-Ghali, parlò di “formula italiana” per descrivere “l’attività pacificatrice” della Comunità, “unica nel suo genere” perché fatta di “tecniche caratterizzate da riservatezza e informalità”. 

Grazie alla pace, ricorda in un suo articolo l’AGI, iniziava per il Mozambico una stagione nuova, un percorso non semplice e lineare, ma anche una success story, che mostra come uno Stato può lasciarsi alle spalle le gigantesche sofferenze di una guerra civile, per affrontare sfide sempre complesse, ma ampiamente gestibili in un contesto di pace: l’economia, il benessere dei suoi abitanti e i rapporti internazionali nel mondo globalizzato.

Sfide che purtroppo si ripresentano a distanza di 30 anni nel nord del Paese, nella provincia di Cabo Delgado, dove gruppi jihadisti stanno sfruttando il disagio sociale portando il conflitto in una zona che per gli enormi giacimenti di gas che ospita sarebbe destinata a diventare il motore dell’economia del Mozambico. 

“La pace firmata 30 anni fa a Roma ha legato il Mozambico alla Comunità di Sant’Egidio e soprattutto all’Italia in maniera indissolubile” ha ricordato il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo in un’intervista pubblicata su Oltremare, il magazine della Cooperazione italiana, e rilasciata durante Coopera. “Oggi il problema è molto diverso da quello di 30 anni fa. Prima si trattava di un governo marxista che combatteva contro una guerriglia. Oggi si tratta di gruppi jihadisti che hanno invaso la provincia di Cabo Delgado. Quindi è più difficile una mediazione a livello della comunità internazionale. Come è più difficile stare accanto alla popolazione, portare aiuti in zone in cui non c’è da mangiare. Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, non lasciare da sole queste popolazioni”.

Allargando lo spettro della sua analisi Impagliazzo va poi oltre. “I problemi in Africa oggi sono molti, derivano da una globalizzazione che ha alcuni aspetti positivi ma molti negativi. Ci troviamo ora in mezzo a una tempesta provocata da vari fattori, il primo dei quali è stato il Covid. Ma non è colpa solo della pandemia. C’è una guerra in Europa, c’è una crisi economica, stiamo tutti vedendo l’aumento dei prezzi, siamo di fronte a Paesi deboli insidiati da colpi di Stato e, in alcune aree, dalla violenza del jihadismo”. Guardando all’Africa, prosegue Impagliazzo, “si è formata una grammatica della rivolta che sta travolgendo alcuni popoli del Sahel e della fascia orientale del continente. Per questi motivi, oggi la cooperazione non può che essere rafforzata. Noi possiamo intervenire per contrastare tutti questi fenomeni di crisi o almeno alcuni di essi e ridare alle popolazioni dei Paesi africani delle nuove possibilità che né i governi (alcuni purtroppo presi da fenomeni di corruzione molto evidenti) né la violenza jihadista garantiscono”.

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