Le nebbie del Congo

di AFRICA

La Repubblica democratica del Congo potrebbe essere una delle nazioni più prospere del mondo. È invece il luogo simbolo dell’instabilità, della corruzione e della povertà estrema. Sempre più sull’orlo del baratro.

La nebbia mattutina avvolge la selva nella regione di Tshopo, nel cuore della Repubblica democratica del Congo. Una donna attraversa un campo di riso con due taniche sulla schiena: va ad attingere al vicino fiume. Un’immagine bucolica che suscita serenità. È difficile immaginare che in molte province vicine regnino violenza e caos. Il Congo è enorme, grande quanto l’Europa occidentale. Da Kinshasa, la capitale, a Goma, città del Nord Kivu situata all’estremità opposta, nell’Est, il clima di tensione cresce: la possibilità di una nuova guerra è sempre più reale e vicina. I 5 milioni di morti della guerra dal 1998 al 2003 non sono bastati, e se la gigantesca nazione esploderà, di nuovo i danni umani, sociali ed economici saranno devastanti, proporzionali alla sua taglia e all’importanza della sua posizione nel centro del continente. Gli effetti di una nuova guerra in Congo si sentirebbero, a partire dall’economia, in tutti i Paesi confinanti.

Catastrofe annunciata

I dati diffusi dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parlano della più grave crisi al mondo, nonché della più dimenticata. I conflitti hanno fatto salire a oltre 4 milioni l’esorbitante cifra degli sfollati. 750.000 bambini soffrono di malnutrizione acuta e 400.000 rischiano di morire di fame nella regione del Kasai, anche perché 25 zone sanitarie sono in stato di crisi nutrizionale. L’Unhcr dice che l’insieme delle violenze nel Sud-est del Congo sta per generare un «disastro umanitario di proporzioni gigantesche». Lo conferma Medici senza frontiere, attivo nel Paese da decenni: nel Kasai e nell’Ituri, dove regnano malnutrizione e virus. Ospedali e ambulatori governativi sono lasciati a sé stessi, il personale non riceve stipendio per mesi, e accedere alle cure è molto difficile. «Le persone non possono permettersi le visite e il governo non offre coperture vaccinali adeguate perché troppo costose», dice David Mwelwa, responsabile di Medici senza frontiere a Lowa, dove si muore di malaria, morbillo, malnutrizione, colera e aids.

Alta tensione

Il rifiuto del presidente Joseph Kabila di lasciare il potere quando, il 19 dicembre 2016, ha esaurito i due mandati presidenziali previsti dalla Costituzione, ha generato un’ondata di malcontento. La popolazione aspettava con ansia le elezioni, da tenersi, secondo un accordo siglato tra maggioranza e opposizione, entro la fine del 2017. Ma, per oltre dodici mesi, ai congolesi non è stata comunicata una data nella quale presentarsi alle urne. In questo momento pare che le elezioni si terranno il 23 dicembre prossimo, e di recente il ministro della Comunicazione Lambert Mende ha dichiarato che Kabila non si ripresenterà. Ma il presidente illegittimo continua a prendere tempo, a reprimere qualsiasi forma di dissenso e a tentare di spaccare l’opposizione. Il Paese è sempre più militarizzato. Non si sa che potrà succedere.

Un martedì mattina qualunque, per esempio, Kinshasa è inaspettatamente irriconoscibile: il traffico azzerato, le botteghe chiuse, le vie popolate solo da polizia ed esercito. La caotica città sempre in movimento è completamente bloccata: sono stati indetti dall’Udps (Unione per la democrazia e il progresso sociale), ossia il principale partito di opposizione, due giorni di ville morte (“città morta”), durante i quali tutto si deve fermare in segno di protesta contro il governo. Numerose e diverse sono infatti le forme di dissenso che da mesi punzecchiano il potere: dalle manifestazioni agli scioperi ufficiali, dagli attacchi perpetrati da gruppi armati in quartieri cruciali della capitale e in diverse zone del Paese alle vere e proprie ribellioni concentrate in precisi territori.

Repressione nel sangue

Il 7 dicembre scorso, la delegazione della Monusco (la missione Onu nella Rd Congo) presente nella regione del Nord Kivu è stata attaccata. Sono morti 14 caschi blu e più di 50 sono rimasti feriti: uno dei peggiori assalti mai subiti dall’Onu. Qualche settimana dopo, la Chiesa cattolica ha deciso di sfilare pacificamente a Kinshasa per chiedere le dimissioni del presidente. La risposta delle forze di sicurezza governative non è stata altrettanto pacifica: il 31 dicembre hanno fatto irruzione nella cattedrale, dove hanno lanciato lacrimogeni e sparato sui fedeli.

A completare e ad alimentare l’esplosivo quadro vi sono sia i vecchi conflitti incancrenitisi in alcune regioni, sia nuovi scontri interni. Nella Nord Kivu prosegue da circa vent’anni una guerra senza fine tra esercito regolare e gruppi ribelli. A partire dall’agosto del 2016, anche nella provincia del Kasai Centrale il numero di morti e profughi è stato da bollettino di guerra. Motivo? Il capo di una milizia locale di nome Kamuina Nsapu, che non appoggia il governo centrale e promette di liberare il territorio dalle “forze occupanti” di Kinshasa, viene ucciso dall’esercito. La popolazione si ribella, e lo fa con ancor più forza quando scopre che Kabila non molla il potere.

L’esercito interviene pesantemente, e in pochi mesi si parla di migliaia di cadaveri e di oltre un milione e mezzo di sfollati solo in questa regione. «Come al solito, a rimetterci sono soprattutto i civili. Sono state trovate decine di fosse comuni nel Kasai. Inoltre i villaggi vengono rasi al suolo, le case bruciate e le donne stuprate», afferma Patient Ligodi, direttore del giornale indipendente online Actualité Congo, che ha sede a Kinshasa. «La maggior parte della popolazione non appoggia più Kabila, che gode del sostegno solo di quelle regioni che si è comperato».

Forziere geologico

La conferma di quanto dice la si trova viaggiando per il Paese, per esempio nella provincia del Maniema, da cui proviene la moglie del presidente, e dove il capo dello Stato gode appunto di un buon sostegno. Il capoluogo, Kindu, raggiungibile dalla capitale con qualche ora di volo, è una cittadina ordinata e pulita dotata di stazione ferroviaria e porto fluviale, e di un ospedale nuovo e all’avanguardia, fiore all’occhiello del sistema sanitario congolese.

L’attaccamento di Kabila al potere è dettato principalmente dagli interessi economici: il Congo trabocca di oro, coltan, diamanti, cassiterite, argento, rame. È il primo produttore mondiale di cobalto, utilizzato per le batterie di smartphone e auto elettriche. La presenza di minerali genera abusi di potere, sfruttamento, lotte interne e forti contrapposizioni territoriali. Il tutto mentre, per esempio nelle miniere d’oro di Mukwenge-Maroc, disseminate tra i monti del Sud Kivu, i minatori lavorano incessantemente con salari di fame e in un ambiente infernale.

Gigante fragile

Come all’epoca di Mobutu Sese Seko, il tiranno che governò dal 1965 al 1997, e di Laurent-Désiré Kabila (1997-2001), padre dell’attuale presidente, più importanti delle vite umane sono le ricchezze, destinate a pochi eletti. Questo ha reso il Congo una fortezza dalle fondamenta fragili, che, proprio come allora, oggi può crollare da un momento all’altro. Nonostante le potenzialità del sottosuolo, l’economia è in ginocchio, con un Pil pro capite di circa 450 dollari e un’inflazione annua che supera il 40 per cento.

La quasi totalità dell’energia elettrica è di origine idrica, ma le due grandi centrali (Inga 1 e Inga 2) sul fiume Congo non sono più completamente operative, e il progetto di costruzione di Inga 3 rimane sulla carta perché costoso. Il risultato? La corrente, dove c’è, continua a saltare, e i più non possono permettersi i generatori. Inoltre, come spiega il responsabile di un centro di formazione per ragazzi di strada, «a Kinshasa ci sono 24 Comuni, e in ciascuno di essi una baraccopoli. Si salva solo il quartiere delle ambasciate e degli uffici amministrativi».

La città del fiume

E mentre la capitale, che conta ormai più di 11 milioni di abitanti, esplode riempiendosi di fuggitivi dalle zone di guerra, il governo costruisce un surreale, immacolato quartiere residenziale destinato alle élite. È la Cité du Fleuve, che sorge a ridosso di uno slum: per accedervi si devono attraversare file di baracche dove la domenica ciondolano militari che reggono con una mano il fucile, con l’altra la bottiglia di birra. Le strade sono solcate da Limousine luccicanti, guidate dai rampolli delle famiglie alleate a Kabila. Sfilano a poca distanza dalle sontuose residenze, mentre il grande fiume continua a scorrere, fedele a un popolo che non si arrende.

Al calar del sole, due uomini in piroga raggiungono lentamente la riva del proprio villaggio. Presto sarà buio, e non sarà più sicuro spostarsi: nella foresta si possono incontrare banditi o ribelli. Ma un’altra giornata è finita e, anche per stasera, i due hanno qualcosa da mangiare. Domani si vedrà.

(Valentina Giulia Milani – foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero)

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