La razionalità della violenza: conflitti e politica nel Corno d’Africa

di claudia

di Uoldelul Chelati Dirar

Il continuo e spesso drammatico susseguirsi di violenza politica nel Corno d’Africa pone con urgenza la necessità di capirne le radici. A tal fine è fondamentale evitare le scorciatoie che interpretano i conflitti e la violenza che li accompagna secondo cliché quali: “guerre etniche”, “odi atavici e tribali” o “violenza belluina e irrazionale”. Si tratta di semplificazioni che non rendono giustizia alla complessità dei processi politici che sottendono questi conflitti e ne oscurano la razionalità, impedendone quindi una reale comprensione. Il ricorso all’irrazionalità come chiave di lettura dei conflitti è sempre una negazione della verità. Per questo ritengo utile individuare snodi storici cruciali che ci aiutino nella mappatura della complessa geopolitica del Corno d’Africa. In questa prospettiva, ne emergono con chiarezza almeno quattro fondamentali.

Un primo snodo storico è l’anomala decolonizzazione del Corno d’Africa, definito da alcuni studiosi una “mancata decolonizzazione”. La storia politica della regione è stata segnata profondamente dal fatto che la presenza coloniale sia venuta a mancare già nel 1941 (vent’anni prima del resto dell’Africa subsahariana), non a seguito di una dialettica politica tra colonizzati e colonizzatori ma come risultato della sconfitta militare dell’Italia in Africa ad opera delle forze britanniche. La fine improvvisa e non pianificata della presenza coloniale italiana ha creato un vuoto politico che le élite locali hanno dovuto riempire precipitosamente. L’urgenza di dover immaginare il futuro ha dato vita a progetti politici sviluppatisi in un contesto di relazioni di potere asimmetriche che vedevano da un lato lo Stato etiopico, con una consolidata tradizione di relazioni diplomatiche ed élite intellettuali e politiche avvezze al potere e alla sua gestione e, dall’altro, le élite eritree e somale, spesso raffinate e creative ma senza esperienza diretta di gestione del potere o di una sua progettazione.

Da tutto ciò deriva un secondo cruciale snodo storico-politico, ovvero la questione del nazionalismo. Nell’urgenza di definire una cornice politica per il futuro della regione, coerentemente con lo spirito dei tempi le élite locali hanno alimentato retoriche nazionaliste intese a legittimarne le aspirazioni politiche. Tuttavia, il limite principale di tali modelli nazionalisti era la loro intrinseca vocazione al conflitto. Da un lato il nazionalismo etiopico rivendicava la vocazione a un ruolo egemonico determinato dalla supposta continuità millenaria dello Stato imperiale etiopico e reclamava il diritto ad inglobare in un contesto pan-etiopico anche i territori eritreo e somalo. Dal canto loro, le élite eritree contestavano le ambizioni etiopiche teorizzando la legittimità dell’esistenza di uno Stato eritreo indipendente sulla base della recente esperienza coloniale, ricollegandosi così a principi di autodeterminazione e di inviolabilità dei confini coloniali che proprio in quegli anni entravano nel vocabolario della politica internazionale. Le élite somale, invece, teorizzavano un nazionalismo di tipo irredentista, che rivendicava come parte costitutiva della nazione somala territori e popolazioni di fatto soggette ad altri Stati (Gibuti, Etiopia e Kenya).

Connesso alla questione del nazionalismo vi è un terzo snodo: la questione dello Stato. Eredità complessa e mai sufficientemente dibattuta dell’esperienza coloniale, lo Stato così come teorizzato in Europa a partire dall’Età moderna diventa in Africa un feticcio e allo stesso tempo il luogo e l’oggetto del conflitto politico. La costruzione o il rafforzamento dello Stato, così come la lotta per accedere alle risorse che esso controlla, diventano la causa principale dei conflitti della regione. L’elevazione dello Stato a feticcio si basa per lo più sull’adozione sostanzialmente acritica di un modello di statualità importato dalla tradizione occidentale, innescando così complesse dinamiche che ci portano al quarto e ultimo snodo storico-politico fondamentale, ovvero la questione di come integrare nello Stato il pluralismo linguistico, etnico, religioso e culturale di questi territori.

milizia Tplf
Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf)

Questo tema – all’epoca chiamato “questione delle nazionalità” – è stato al cuore del dibattito politico etiopico a partire dalla fine degli anni Cinquanta, fortemente influenzato dal pensiero marxista e dalle sue varie teorizzazioni della questione nazionale. Lo Stato etiopico contemporaneo, nato nell’Ottocento dall’incorporazione forzata di vari regni e comunità da parte dell’Impero a trazione amhara, si è a lungo ispirato a un’idea di Stato relativamente centralizzato che presupponeva l’assimilazione linguistico-culturale di tutta la popolazione al modello amhara. Questo modello è stato messo radicalmente in discussione nel 1991 dopo la caduta della dittatura militare del Derg e l’ascesa al potere di una coalizione di forze guidata dal Tigray People’s Liberation Front (Tplf). A partire dal 1994 l’Etiopia ha posto in essere un’idea di Stato decentrato, in una cornice federale definita in termini etno-linguistici, che ha drasticamente ridimensionato la tradizionale centralità politico-militare delle élite di estrazione amhara offrendo (anche se mai in modo completo e equo) nuove opportunità alle élite storicamente marginali se non, addirittura, oppresse.

Allo stesso tempo, la mancata piena applicazione delle promesse di liberazione e di aperture democratiche, insite nel progetto federale, hanno innescato nuove tensioni che, insieme al revanscismo delle élite amhara e al prevalere di una cultura politica fortemente incline al ricorso alle armi, hanno contribuito all’attuale catastrofe politica e umanitaria che dilania l’Etiopia minacciando l’intera regione. La crisi attuale è una nuova opportunità per ripensare l’Etiopia e l’intera regione.

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