La Costa d’Avorio è un gigante d’argilla

di AFRICA
Costa d'Avorio

Un gigante dai piedi di argilla. La pandemia di coronavirus ha reso evidente ciò che i dati nascondevano. La Costa d’Avorio è in crescita costante dal 2011: i numeri del Pil hanno sfiorato le due cifre e per questo il Paese è stato considerato la locomotiva dell’Africa Occidentale. Eppure il 40 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il lavoro, soprattutto per le giovani generazioni, non è garantito, tanto che in molti, fino a 20mila ogni anno, tentano il viaggio della speranza verso l’Europa con alterne fortune. Un Paese dove il welfare di base, cioè la sanità, è un miraggio di pochi e dove la società civile spesso sopperisce alle mancanze dello Stato. Il coronavirus ha reso tutto questo evidente e i dati del contagio, oggi, sono preoccupanti. Il rapporto tra positivi e tamponi effettuati è del 30 per cento: i numeri peggiori sono stati registrati nella capitale economica Abidjan e nella sua estensione, la cosiddetta Grande Abidjan, che coinvolge la costa atlantica.

Politica nel caos

La Costa d’Avorio, poi, a fine ottobre dovrebbe andare alle urne – coronavirus permettendo – per eleggere il presidente e, a oggi, non risultano esserci candidati ufficiali. La politica è l’altro fattore di incertezza. A pochi mesi dalla tornata elettorale tornano a farsi sentire i fantasmi di un vecchio politico, Laurent Gbagbo. Il suo ritorno in patria creerebbe non pochi problemi e imbarazzi. Ma è altrettanto vero – ora che gli è stato restituito il passaporto, dopo l’assoluzione in primo grado e in attesa dell’appello da parte del tribunale internazionale dell’Aja, e tolto l’obbligo di dimora – che potrebbe tranquillamente partecipare, come candidato, alle presidenziali e il seguito nel Paese sembra essere intatto. Su di lui, inoltre, pende una condanna, in contumacia, emessa da un tribunale ivoriano a 20 anni di reclusione, ma potrebbe non essere applicata. Questa è senz’altro un’incognita della politica ivoriana, che da mesi e nonostante il coronavirus si sta riposizionando, costruendo alleanze, disfacendone altre, in un clima non privo di tensioni destinate a crescere nei mesi. Non è chiaro se si ripresenteranno gli scenari disastrosi e di crisi come nel 2011, quando si è combattuta una guerra proprio perché Gbagbo, perdute le elezioni, non voleva lasciare il timone del Paese che, dati i risultati elettorali, spettava a Alassane Ouattara. Presidente uscente che, oggi, ha rinunciato a candidarsi per un altro mandato, lanciando il primo ministro Amadou Gon Coulibaly: quest’ultimo però è ormai da mesi ricoverato in  Francia per problemi gravi di salute.  Un candidato ci sarebbe, Guillame Soro. Ma, anche lui, è stato condannato in contumacia in un processo durato poche ore, senza la presenza degli avvocati difensori, a 20 anni di reclusione. Il suo mentore, Ouattara, lo ha voluto fare fuori, anche se Soro promette di non rinunciare alla candidatura. Certezze politiche sembrano proprio non esserci in Costa d’Avorio.

La morsa jihadista

La confusione politica è aggravata, anche ma non solo, dalla possibile recrudescenza terroristica nel Paese. L’attacco jihadista dell’11 giugno a una base militare di Kafolo al confine con il Burkina Faso in cui sono morti 12 soldati preoccupa molto. Un attentato significativo perché ha colpito la base delle Forze di sicurezza ivoriane. La presenza jihadista a nord del Parco nazionale del Comoé si è sviluppata nell’ultimo anno e secondo fonti di sicurezza ivoriane si tratta di combattenti che operano in Burkina Faso e cercano rifugio in territorio ivoriano. Questo attacco mostra in maniera evidente che la minaccia jihadista sta scendendo verso i Paesi del Golfo di Guinea, dopo essersi estesa in tutto il Sahel. Il terrorismo, dunque, sta estendendo i suoi tentacoli sempre più a sud, fino al nord della Costa d’Avorio, al confine con il Mali e il Burkina Faso. La Costa d’Avorio peraltro è stata già colpita nel 2016 da un attentato che ha fatto strage di turisti – 19 i morti – sulle spiagge di Grand Bassam, obiettivo simbolico visto che è l’antica capitale coloniale francese. Nel nord del Paese l’integralismo sta prendendo sempre più piede e in quell’area si stanno insediando numerose scuole coraniche. E non è solo una questione religiosa. In queste aeree dimenticate dal potere ivoriano la povertà è allarmante. La radicalizzazione e l’affiliazione al jihadismo è praticamente automatica. In molti, infatti, sono i giovani che cercano in questa affiliazione una ragione di vita, un futuro, un modo per avere soldi così da poter vivere. La preoccupazione e l’allarme è evidente ed è dimostrato dal fatto che la Costa d’Avorio e il Burkina Faso hanno avviato un’operazione militare congiunta per contrastare la minaccia crescente dei gruppi islamici affiliati ad al Qaida e al sedicente Stato islamico nella regione del Sahel. La risposta jihadista non si è fatta attendere. Operazione che ha preso le mosse dopo un attacco terroristico avvenuto a Yanderè in Burkina Faso, ultimo posto di frontiera prima di arrivare in Costa d’Avorio: il jihadismo ha ora varcato la frontiera.

Il fronte saheliano

Ciò dimostra, inoltre, che tutto il Sahel è nel caos: la preoccupazione che questa area si possa trasformare in un grande Califfato nero non è infondata. E le operazioni militari sembrano avere poco successo. Nonostante l’uccisione del capo di al Qaida, Abdelmalek Droukdel, l’operatività dei miliziani sembra rimasta intatta. Il Burkina Faso (che nel 2011, quando la Costa d’Avorio era in piena crisi, diventò il Paese rifugio per gli operatori umanitari ed economici) ora è tra i Paesi più colpiti dal terrorismo: oltre mille morti, 800mila rifugiati e 300mila studenti privati dell’educazione scolastica. In tutto ciò la Francia pensa di rafforzare l’azione militare. Tanto che proprio all’indomani dell’attentato in Costa d’Avorio ha rilanciato una coalizione di Paesi europei e dell’Africa occidentale per combattere i miliziani, potenziando lo sforzo militare. Parigi, a fronte di un suo impegno che coinvolge circa 5mila militari, chiede un impegno maggiore dei Paesi europei e della regione.  Una coalizione a cui ha aderito l’Italia. Con l’ultimo “decreto missioni” il nostro Paese si schiera a fianco di Parigi con elicotteri e forze speciali, in particolare in Mali. Si tratta di 200 specialisti supportati da 4 elicotteri da trasporto e 4 da combattimento.  La rinnovata coalizione riceverà aiuti finanziari, inoltre, anche da parte di Arabia Saudita e Emirati Arabi. Insomma la Francia è convinta che in Sahel si possa vincere la battaglia contro lo jihadismo sul piano militare. Missioni militari, tuttavia, che non sono accompagnate da aiuti allo sviluppo. La sicurezza è certamente una precondizione per poter realizzare anche missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i Paesi interessati a sviluppare le loro economie, premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Ma tutto ciò sembra lontano dall’essere realizzato.

(Angelo Ravasi)

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