Il popolo dell’arcobaleno

di AFRICA
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In Sudafrica le donne ndebele indossano abiti vistosi e decorano le case con disegni dalle tinte brillanti. Impariamo a decifrare quei simboli, che emanano creatività e orgoglio. E che celano significati profondi

C’era una volta il Sudafrica dell’apartheid e dei Bantustan, le terre improduttive lasciate ai “neri” onde negare loro il diritto di voto. Il concetto era semplice: se vivi in uno staterello che in qualche modo è casa tua (homeland), non sei un sudafricano, e quindi non hai identità e diritti. Così, anni fa, da Pretoria mi avviai lungo la R25, in un paesaggio desolato di laterite. Andavo a nordest verso Verena e il KwaNdebele, la “terra delle genti dai mille colori”.

Incontro divino

Me ne accorsi incontrando un carretto, di quelli d’Africa: due asini macilenti, un pianale e il cigolio di un antico assale di Land Rover dal differenziale perduto. A bordo c’era un arcobaleno: signore ndebele reduci da una festa, una di quelle cerimonie cui mi era vietato partecipare per reciprocità di apartheid. Tutte indossavano il tipico corredo di perline multicolori. La più imponente aveva un copricapo piumato con perline gialle e verdi; al collo, enormi giri di perline azzurre coprivano spirali d’ottone avvolte fino al mento; sulla spalle, una coperta ricamata di perline rosa antico. Il corpo, le braccia e le gambe sotto il ginocchio, erano deformati da altri giri di perline, fino a fornire l’immagine policroma dell’omino Michelin; spirali d’ottone serravano le caviglie, che parevano scoppiare. Per finire, la donna indossava un fantasmagorico grembiule di pelle con decorazioni bianche, rosse, blu, verdi.

Quando scese dal carretto, Letty Mahlangu, donna ndebele, dislocata a forza nel KwaNdebele, lavoratrice a salario minimo in una fattoria, priva di diritti civili, mi parve la dea Iride. Le avrei baciato la mano, ma neppure questo era lecito, allora. Oggi le cose sono diverse, ma non è detto che i colori degli Ndebele siano ancora lì ad aspettarci assieme a Letty.

Destini diversi

Gli Ndebele sono una popolazione di dispersi su un territorio a macchia di leopardo. Dopo il 1820, tutta l’Africa australe venne travolta da guerre feroci tra vari gruppi, da cui emerse l’egemonia degli Zulu. Gli Ndebele vennero costretti a migrare verso lo Zimbabwe, dove divennero noti come Matabele e mantennero la tradizione bellicosa (sono famose le loro mazze). I gruppi restanti si dispersero tra gli altri popoli più numerosi; come tutti i rifugiati, mantennero un basso profilo, professandosi pacifici.

Le differenze tra Matabele e Ndebele sono profonde, a partire dal linguaggio che è quasi inintelligibile, fino ad arrivare ai costumi e, soprattutto, alle abitazioni. La casa dei Matabele si rifaceva al modello tradizionale dei pastori nguni: una capanna semisferica di rami intrecciati e fango. Molto diversa è l’abitazione sfoggiata dagli Ndebele in Sudafrica. Un tempo la casa principale era a pianta circolare, ma ora è sempre più rettangolare. Attorno ci sono gli edifici accessori, tra cui quelli per i figli (i maschi separati dalle femmine) e la cucina. Il tutto è circondato da un basso muretto. Il bestiame, contrariamente alla tradizione pastorale, si trova in un recinto a parte. I materiali da costruzione sono pali in legno ricoperti da un impasto di terra cruda e sterco di vacca; il tetto è coperto da canne e steli d’erba. La zona più interna è l’area privata della matriarca di casa, dove anche il marito deve chiedere il permesso di entrare. Pochi estranei sono ammessi all’ikumba, e quando una donna muore, più nessuno può entrarvi. Si lascerà che il tempo distrugga la casa. 

Perline che parlano

Gli Ndebele mantengono usi e costumi di origine nomade. L’abbandono della casa fino alla rovina ne è un esempio. Un altro è dato dalla decorazione corporea attraverso le perline, oggetti leggeri che vanno dove tu vai: in un territorio monocromatico come il veld sudafricano, le perline sono l’unico ambiente colorato in cui crescere i bambini. Ho visto un bambola Barbie ricoperta di colori, così come si conviene alla bambola maschio-femmina che riceve ogni ragazza ndebele alla pubertà; spesso è una bottiglia (nuda e dura come il principio maschile) ricoperta da una pelle perlinata (avvolgente, morbida e colorata come la donna).

In tempi recenti, con la progressiva sedentarizzazione e trasformazione delle case, le donne ndebele trasferirono la decorazione cromatica dagli abiti ai muri esterni delle abitazioni squadrate. Lo scopo è cerimoniale: al momento della circoncisione del figlio maschio, la donna ndebele decora la casa a segnarne la trasformazione. In Africa australe, le perline e i colori hanno un linguaggio proprio, al punto che le donne zulu componevano «lettere di perline» per i mariti nelle lontane miniere. 

Segni enigmatici

Oggi è difficile districarsi tra simbolismi, geometrie, tinte e influenze della modernità. La casa degli Ndebele mantiene però un suo dinamismo, in cui il lessico identitario ha la sua parte: segna il territorio in modo inequivocabile. Dice: “Noi siamo gli Ndebele, diversi da tutti”. Motivi e colori derivano sia dalla tradizione sia dalla vita reale.

La tecnica utilizzata è antica (la si ritrova anche in Zimbabwe) e prevede decorazioni geometriche semplici, ottenute passando le dita sui muri di terra e sterco. Talvolta si ottiene un effetto tridimensionale con sottolineature in caolino bianco (colore della morte). Nei frontoni, assai elaborati, le forme geometriche (frecce, linee spezzate, quadrelle) hanno spesso origini concrete: uno dei motivi più comuni è detto tshefana, “lama di rasoio”; le diagonali racchiudono un segno che è inequivocabilmente un aeroplano: non stupisce che si chiami, all’inglese, ufly. Il lessico tribale contiene stilizzazioni di sole e alberi (ormai quasi estinti), o segni di cambio di vita. Se un tempo la donna rimaneva chiusa nella casa, oggi le decorazioni narrano di sue percezioni della città: scale, vasi di fiori, piscine, lampadine (segnalano che manca l’elettricità), passaggi a livello, leoni (mai visti, ma copiati dai libri dei figli).

Villaggi dipinti

La geometria e la tavolozza derivano dalle decorazioni delle gonne rigide delle donne. Inizialmente (prima delle perline colorate e degli acrilici) erano solo colori naturali: bianco, ocra, nero. Il primo ritocco artificiale venne con lo sbiancante da bucato che fornì un nuovo colore primario, l’iblou (non c’era nessuna parola ndebele per dire blu). Il nero lucido lo estraggono i ragazzini dalle torce.

Le migrazioni interne, più o meno forzate, aprirono agli Ndebele tutti i brillanti colori del mondo acrilico. Attorno al 1960, nei pressi di Pretoria, nacque il “villaggio dipinto” di Hartebeestfontein, guidato dal capo Fene del gruppo kwaMsiza. Il villaggio divenne un hit turistico e attrasse l’attenzione di artisti e architetti. Fu così che il costume di dipingere i muri delle case si diffuse tra gli Ndebele. Nei primi anni Ottanta, però, i segni identitari vennero sfruttati dal governo dell’apartheid proprio per la costruzione dei fasulli Bantustan; in opposizione, le popolazioni nere decisero di rifiutare i segnali “etnici” imposti dai bianchi. E allora le case ndebele iniziarono a coprirsi di fiori, animali, stelle nere del football (in antitesi al rugby bianco), personaggi politici, disegni satirici. Fu un passo coraggioso: svelò la falsa equazione secondo cui l’immobilità culturale della tradizione diviene un valore per l’identità culturale, madre di tutti i razzismi.

(testo di Alberto Salza – foto di Afp)

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