Il Mali visto dall’Italia. Intervista a Soumaila Diawara

di Stefania Ragusa

Soumaila Diawara è responsabile della comunicazione del partito di opposizione Solidarité Africaine pour la Démocratie et l’Indépendance, che sostiene il Mouvement du 5 juinRassemblement des Forces Patriotiques (M5-Rfp). Nel 2012 è stato accusato di avere aggredito il Presidente dell’Assemblea Legislativa. Non era vero, ma la sua vita da quel momento è stata a rischio e per salvarla ha dovuto lasciare il Mali. Ha attraversato il deserto e il mare e finalmente è approdato in Italia dove, nel 2014, ha ottenuto la protezione internazionale e lo status di rifugiato politico. Ha seguito da Roma, dove risiede, gli eventi di queste ultime ore. In contatto costante con i compagni di partito, gli amici e i media maliani, ha visto i militari in azione e la gente di Bamako pronta a sostenerli.

«Già dalle prime ore del mattino era chiaro che il colpo di stato era riuscito», osserva. «La polizia ha provato a fare un po’ di resistenza ma ha capitolato rapidamente e i militari avevano la situazione in mano. Quello che ha preso tempo sono state le operazioni per prelevare il presidente, suo figlio e i ministri e portarli al sicuro».

Le testate internazionali, in particolare quelle francesi, davano però informazioni diverse… «Sì. Per tutto il giorno hanno minimizzato parlando di generici disordini, ammutinamento, caos. Solo verso sera, quando ormai non era più possibile affermare nulla di diverso e giravano sui social le immagini del presidente IIbrahim Boubacar Keita portato nella base di Kati, hanno dovuto ammettere che il colpo di stato era riuscito. E senza spargimento di sangue. La Francia è molto contrariata. Voleva a tutti i costi che IBK restasse al suo posto e, in questi mesi, si è girata dall’altra parte per non vedere il governo che ordinava all’esercito di sparare sui manifestanti e la polizia che arrestava senza una valida ragione gli esponenti dell’opposizione. Ci sono stati morti e feriti. Parigi ha sventolato il pericolo islamista per giustificare da un lato la presenza dell’esercito, dall’altro l’assenza di qualsiasi intervento di fronte alla repressione violenta delle proteste di piazza».

E il pericolo islamista non c’è? «C’è un problema legato al terrorismo nel mondo, in Africa, nel  Sahel e anche in Mali. E non è un caso che una delle ragioni per cui IBK ha deluso il popolo maliano sia stata proprio l’incapacità di fronteggiare le forze jihadiste nel nord del Paese. Ma nel programma del M5-Rfp non c’è niente che possa autorizzare a immaginare una svolta islamista. Anche l’imam Dicko è stato molto chiaro da questo punto di vista. È vero poi che il Mali è una nazione a prevalenza musulmana, ma il nostro Islam è tollerante e aperto alle diversità e al dialogo interreligioso. L’immagine di una nazione in procinto di sprofondare in un baratro oscurantista non corrisponde alla realtà».

Che cosa succede adesso? «I militari hanno detto di volere avviare dei colloqui con il CMA, il coordinamento dei movimenti per l’indipendenza dell’Azawade, e chiesto chiaramente la collaborazione di tutti i partiti e di tutte le componenti della società civile per realizzare un governo di unità nazionale che porti il paese a nuove elezioni in modo trasparente»

Hanno detto anche che le forze ONU, le barkane francesi e le altre forze militari straniere presenti aiuteranno a mantenere l’ordine. Ma questo non è in contrasto con le richieste popolari? «I maliani da tempo chiedono l’allontanamento dei contingenti stranieri, ma per il Comité National pour le Salut du Peuple, come hanno scelto di chiamarsi i militari, è fondamentale in questo momento non dare appigli alla comunità internazionale per mettersi di traverso. Il rischio che corriamo oggi non è la svolta verso la dittatura militare e nemmeno quella teocratica. Il rischio è essere isolati dalla comunità internazionale, l’embargo».

Cosa fanno tutti questi eserciti stranieri in Mali? «Ufficialmente combattono il terrorismo. In realtà , come è abbastanza evidente, fanno la posta alle risorse strategiche del Sahel, prima tra tutte l’acqua. Tra Mali e Algeria c’è un’immensa riserva d’acqua sotterranea che presumibilmente sarà nei prossimi anni oggetto di grandi contese politiche e commerciali. E poi ci sono i “tradizionali” giacimenti di fosfati, oro, bauxite, uranio…».

Risorse che evidentemente fanno gola a molti. Tra i militari alla guida del golpe, c’è il generale Malick Diaw, che è appena rientrato dalla Russia. Qualcuno ci ha visto dietro lo zampino di Mosca… «Tutti gli ufficiali maliani sono formati in Russia o negli stati Uniti. Io non credo che ci sia un’implicazione della Russia in questa vicenda. Sono davvero persuaso che a spingere in questa direzione ci sia stata solo l’insostenibilità della situazione maliana e il rifiuto da parte del nostro esercito di continuare colpire i fratelli».

Si sarebbe potuto evitare il colpo di stato? «Sì, se il presidente avesse ascoltato le richieste del popolo maliano invece di sparare sulla folla. E se la comunità internazionale non si fosse girata dall’altra parte di fronte ai crimini del regime. Adesso la mia speranza e quella delle persone di pace è che la comunità internazionale non si intrometta, ma lasci ai maliani la possibilità di governarsi».

(Stefania Ragusa)

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