Il film che fa luce sulla memoria di Zanzibar

di claudia
Amil ShivJi tug of the war

Vi presentiamo il film vincitore della 33° edizione del JCC, Giornate Cinematografiche di Cartagine, Tug of War, traducibile con “I rivoltosi”, del regista tanzaniano Amil ShivJi. Il film è il primo dramma in costume nella storia della nascente industria cinematografica tanzaniana. Esplora un capitolo poco noto dell’arcipelago, quando Zanzibar assistette a una lotta sempre più sanguinosa per il governo democratico che avrebbe posto fine a un sultanato

di Annamaria Gallone

Si è da poco conclusa la 33° edizione del JCC , Giornate Cinematografiche di Cartagine, (29 ottobre/5 novembre), festival dedicato alle produzioni arabe e africane. Ad aggiudicarsi il primo premio, il Tanit d’oro è stato TUG OF WAR (VUTA n’KUVUTE), traduzione letterale “braccio di ferro” che potremmo tradurre in italiano, ispirandoci alla trama, I rivoltosi.

L’autore è il tanzaniano Amil ShivJi, che ha ambientato la sua storia sulle rive del secolare porto commerciale di Zanzibar, nell’Oceano Indiano, ancora sotto il controllo del protettorato britannico e la supervisione del Sultano dell’Oman. Il film è in lingua originale Swahili ed è stato prodotto dal regista stesso e dal sudafricano Steven Markovitz.

Un’opera eccezionale vista la provenienza da un’area che ospita un festival molto originale, ma praticamente non produce film.

La trama è tratta da un romanzo di Adam Shafi in swahili e scritto in collaborazione con la regista sudafricana Jenna Bass: Il giovane rivoluzionario Mswahili, Denge, che combatte per liberare la sua terra conquistare la libertà. Sfidando le autorità, con i suoi amici distribuisce opuscoli socialisti e organizza rivolte per chiedere l’autonomia politica. Tuttavia, i suoi propositi sono destinati a prendere una piega diversa quando incontra Yasmin, una giovane indo-zanzibarese che fugge da un matrimonio, alla ricerca della sua personale libertà.

Molto particolare l’ambiente e la storia di cui si conosce pochissimo: negli anni ’50 e ’60 le persone erano rigorosamente divise secondo la loro posizione sociale, con leggi razziali ed economiche ben precise. Interessante conoscere questo periodo raccontato dal punto di vista degli oppressi e dei resilienti.

Zanzibar è il vero protagonista e il regista cerca di bilanciare un dramma amoroso e politico in costume, anche se non sempre ci riesce. Ma lo spettatore si lascia trascinare dal suono, dal colore e anche dal sentimento dei protagonisti: Denge e Yasmin vivono una personale trasformazione nella loro lotta per l’indipendenza contro un Paese oppressivo. Il loro incontro casuale e i sentimenti proibiti rivelano una storia avvincente di amore e rivoluzione. L’amore proibito si agita tra i due, anche se la lotta di resistenza di Denge e dei suoi compagni si intensifica e una crescente repressione da parte delle autorità coloniali mette a rischio tutte le loro vite.

Shivji afferma che “Tug of War” è il primo dramma in costume nella storia della nascente industria cinematografica tanzaniana. Esplora un capitolo poco noto dell’arcipelago chiamato in modo evocativo le “Isole delle Spezie”, le cui spiagge di sabbia bianca e Stone Town, patrimonio mondiale dell’UNESCO, tra le principali attrazioni turistiche del continente, dipingono l’immagine di un’isola idilliaca.

Negli anni ’50, quando gli africani di tutto il continente iniziarono ad agitarsi per l’indipendenza, Zanzibar assistette a una lotta sempre più sanguinosa per il governo democratico che avrebbe posto fine a un sultanato che, sostenuto dagli amministratori coloniali britannici, aveva governato per 100 anni.

 “Gli anni ’50 sono stati un periodo fantastico – afferma Shivji. – È stato un periodo in cui il dibattito politico e il pensiero critico sono stati incoraggiati. C’erano 100 giornali in quattro lingue diverse pubblicati ogni giorno su un’isola di 300.000 persone. Era un hub per il pensiero sociale e critico. Ma poi si è rotto in un decennio”.

Più di mezzo secolo dopo la sanguinosa lotta che pose fine al dominio coloniale, quelle divisioni persistono nell’odierna Zanzibar. “Quel trauma intergenerazionale continua a esistere e la memoria è stata molto difficile da elaborare per le persone – continua il regista. “Sapevo che un film non avrebbe risolto questi problemi. Ma è stata un’opportunità per permetterci di guardare agli anni ’50 e renderci conto che in realtà non siamo così lontani”.

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