I burrascosi rapporti tra l’Africa e la Corte penale internazionale

di Valentina Milani
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L’assoluzione da parte della Corte penale internazionale (Cpi) dell’ex presidente Laurent Gbagbo e dell’ex capo dei Giovani patrioti Charles Blé Goudé, pronunciata in primo grado il 15 gennaio 2019 e confermata mercoledì dalla Cpi torna a riaccendere i riflettori sul ruolo del tribunale internazionale che, negli ultimi anni, ha ricevuto non poche critiche da parte di alcuni Stati africani.

La Cpi è il primo tribunale internazionale permanente che, con sede a L’Aia in Olanda, giudica individui (non Stati) responsabili di gravi crimini internazionali: crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. La sua giurisdizione interviene quando i tribunali nazionali non possono perseguire i colpevoli. Il trattato istitutivo, lo Statuto di Roma, è stato negoziato per quasi tre anni ed è stato adottato dopo una tumultuosa sessione a Roma il 17 luglio 1998. Entrato in vigore nel 2002, definisce la giurisdizione, le competenze e il funzionamento della Corte.

L’Africa ha aderito in massa allo Statuto di Roma: 34 Stati contro i 28 per i Caraibi e l’America Latina o addirittura 25 per l’Europa. Ma molti Paesi africani hanno iniziato a criticare l’operato del tribunale.  Soprattutto quando la sua azione si è concentrata su alcuni capi di Stato in carica come Omar al Bashir in Sudan, Uhuru Kenyatta e il vicepresidente William Ruto in Kenya. L’Unione Africana ha così iniziato a dimostrare sempre più ostilità verso la Corte accusata di essere uno strumento di controllo neo-coloniale nelle mani dell’Europa e spesso definita “giustizia bianca per i neri”. A suo tempo il ministro gambiano dell’Informazione Sherif Bojang aveva accusato nel 2016 la Corte di aver ignorato i crimini di guerra occidentali.

In particolar modo, viene criticata l’eccessiva attenzione riservata dalla Corte all’Africa, a discapito di crimini commessi in altri continenti. Una parzialità percepita nelle azioni della Corte che ha causato numerose minacce di abbandono. Una delle più significative risale al 2014 quando il presidente keniota Uhuru Kenyatta paventò la possibilità di un ritiro in gruppo dei membri dell’Unione Africana (Ua) in seguito alle accuse, poi decadute, che lo vedevano coinvolto nella violenza politica successiva alle elezioni del 2007.

A inizio ottobre 2016 il Burundi, invece, chiese ufficialmente di uscire dalla Corte penale internazionale. Il Paese decise di non riconoscere più l’autorità della Corte dell’Aia, dopo che il tribunale aprì un’inchiesta preliminare sulle violazioni dei diritti umani commessi dal governo a partire dall’aprile del 2015, quando il presidente Pierre Nkurunzinza annunciò che si sarebbe ricandidato per un terzo mandato.

Poco dopo, il 21 ottobre, anche il governo sudafricano annunciò la sua decisione di voler abbandonare la Cpi. Un annuncio che seguì un periodo di tensione tra la Corte ed il Governo di Pretoria iniziato nel 2015 in seguito al mancato arresto di Omar al-Bashir da parte delle autorità sudafricane in occasione di una sua visita nel Paese. Sul presidente sudanese pendevano due mandati di arresto internazionali spiccati dalla Corte con accuse di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Il Sudafrica sarebbe stato obbligato ad arrestarlo secondo i termini dello Statuto di Roma. Mentre un tribunale sudafricano veniva chiamato a decidere tra il rispetto dello Statuto di Roma e la garanzia dell’immunità diplomatica per il leader sudanese, al-Bashir rientrò a Khartoum con un volo privato, esponendo il Sudafrica alle critiche della Corte e, inseguito, la Corte alle critiche del Sudafrica.

Poco dopo il Sudafrica, anche anche il Gambia annunciò nel 2016 di voler uscire dalla Cpi. Ufficialmente il governo gambiano accusava il tribunale di non essere equo e di perseguire solo i capi di Stato africani.

Dopo questa serie di annunci e critiche solo il Burundi, di fatto, si è ritirato effettivamente dalla Cpi il 27 ottobre 2017.

La vicenda Gbagbo riaccende il dibattito sulle presunte orientazioni della Corte a sfavore dell’Africa. Ad essa si aggiungono la prossima uscita di scena del procuratore generale, la gambiana Fatou Bensouda, che sarà presto sostituita dal britannico Karim Khan, e la recentissima apertura di un’inchiesta, da parte della stessa procura, di un’inchiesta su presunti crimini commessi nei Territori Palestinesi.

(Valentina Giulia Milani)

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