Goodbye Barack | editoriale Africa n° 5-2016

di Pier Maria Mazzola

di Marco Trovato

– L’era di Barack Obama volge al termine. Il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti lascerà la Casa Bianca dopo le elezioni dell’8 novembre. Benché siano passati otto anni, mi ricordo nitidamente il momento in cui mi arrivò l’annuncio della sua prima clamorosa vittoria alle urne. Mi trovavo a Nairobi, capitale del Kenya: il Paese natale del defunto padre di Obama. Quando il risultato fu certo, migliaia di cittadini si riversarono sulle strade per festeggiare. I giovani dello slum di Kibera improvvisarono concerti festosi e danze scatenate in un tripudio di bandiere americane disegnate a mano su cartoni e pezzi di stoffa. Era un entusiasmo genuino, contagioso, commovente… irrazionale. Obama non era un keniano, non era neppure un africano. Eppure il colore della sua pelle e le radici della sua famiglia lo rendevano un “fratello”: il fratello che avrebbe cambiato la storia. «Finalmente potremo ottenere i visti d’ingresso per andare negli States», mi urlò una ragazza in lacrime con il volto colorato a stelle e strisce. «Non si dimenticherà di noi», profetizzò l’anziana nonna paterna, frastornata dalle telecamere delle tivù che assediavano il suo piccolo villaggio. Agli occhi di tanti africani e afroamericani Obama era visto come una sorta di messia che avrebbe riscattato i diritti dei neri. È stato all’altezza delle attese? Qual è oggi il bilancio della sua azione politica?

A sinistra gli rimproverano di non essere stato sufficientemente coraggioso e riformista, a destra gli rinfacciano di avere rinunciato al ruolo di sceriffo del mondo dissipando l’egemonia degli Stati Uniti. Stiamo ai fatti: l’amministrazione Obama (osteggiata da potenti lobby e da una parte consistente del Senato) ha realizzato la riforma della sanità che ha esteso la tutela della salute a milioni di poveri. Non solo. Ha portato avanti una impopolare battaglia contro le armi, ha rilanciato l’economia Usa (+10% del Pil rispetto al 2008), ha siglato l’accordo sul clima di Parigi, ha rotto l’isolamento con Cuba e l’Iran. Eppure il mondo che lascia Obama non è molto migliore di quello che aveva ereditato: il terrore di al-Qaeda si è frammentato e moltiplicato così come le aree di crisi, interi popoli sono vittime di guerre e tiranni, le speranze delle primavere arabe sono state soffocate nel sangue, i nazionalismi stanno tornando prepotentemente di moda, l’Europa rischia di andare a pezzi, la questione palestinese resta irrisolta, la globalizzazione non ha garantito più diritti per tutti, il divario tra ricchi e poveri si è acuito. E la questione razziale rimane una ferita aperta, non solo negli Usa ma anche in Europa, dove il germe del razzismo è ben presente, come confermano i tanti episodi di ostilità di cui sono vittime i migranti.

Naturalmente il capo della superpotenza americana ha grandi responsabilità su ciò che avviene nel mondo. Ma non gli si può addossare la colpa dell’imbecillità umana.

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