Gli attivisti del continente che sfidano “la fast fashion”

di claudia
vestiti usati

Milioni di abiti di seconda mano arrivano ogni giorno in Africa, generando lavoro ma anche gravi danni ambientali. Attivisti e designer locali, da Kenya, Ghana, Uganda e Sudafrica, stanno reagendo, trasformando scarti in risorse e denunciando l’impatto della fast fashion.

Milioni di capi di abbigliamento di seconda mano, scartati nei paesi del Nord del mondo, arrivano ogni giorno nei mercati dell’Africa. Il business dei cosiddetti “vestiti dei bianchi morti” genera decine di migliaia di posti di lavoro e un giro d’affari da milioni di dollari, ma al tempo stesso causa gravi problemi ambientali. La vendita di abiti usati viene spesso presentata come un sostegno economico ai paesi africani, ma di fatto rappresenta anche un modo per le nazioni occidentali di smaltire il proprio surplus di produzione.

Il flusso di scarti tessili verso l’Africa subsahariana è un problema serio: secondo Oxfam, il 70% degli indumenti usati a livello globale finisce nel continente, e l’Africa orientale è disseminata di mercati informali. Davanti a questo problema in costante crescita, gli abitanti di vari Paesi africani più colpiti – come Uganda, Kenya, Ghana, Nigeria – non stanno a guardare. Alcuni di loro svolgono un lavoro di attivismo quotidiano, spesso attraverso l’uso dei social media, per tentare di sensibilizzare sul tema e cambiare le cose.

Ecco alcuni nomi di attivisti che stanno facendo un grande lavoro nel continente. Dal Kenya, riporta Greenpeace, spicca il nome di Chemitei Janet, ambientalista ed educatrice di slow fashion, presidente della sezione giovanile di Clean Up Kenya e coordinatrice regionale per l’Africa di Threading Change. Attraverso i suoi canali social, sensibilizza sull’impatto dell’industria della moda in Kenya, facendo da esempio e promuovendo abitudini di consumo più consapevoli. Nello stesso Paese si distingue Joseph Obel, artista performativo, modello e attivista per la salute mentale. Critico verso l’industria cinematografica e teatrale per il ruolo che secondo lui ha nella diffusione del fast fashion con costumi sempre nuovi destinati all’oblio, Joseph ha iniziato a creare i propri abiti utilizzando materiali riciclati. Il suo lavoro esplora il legame tra il corpo umano e gli ecosistemi acquatici. Ha sfilato per la Kibera Fashion Week e ha presentato due spettacoli concettuali: Kundi-Nyota, dedicato alle costellazioni umane, e My Body Betrays Me Again, che affronta l’adattamento del corpo alle pressioni ambientali. Sempre in Kenya opera dal 2015, il gruppo ambientalista Clean Up Kenya nei primi tempi si occupava dell’impatto ecologico delle bottiglie di plastica monouso e degli imballaggi. In un secondo momento ha cominciato a occuparsi del problema dei rifiuti tessili, in particolare il ruolo della plastica negli indumenti di seconda mano.

Dal Ghana, Paese in cui al mercato di Kantamanto, nella capitale Accra, arrivano ogni settimana quindici milioni di indumenti di seconda mano scartati nel nord del mondo, opera Sammy Oteng, fashion designer che da oltre un decennio trasforma abiti di seconda mano in nuove creazioni. Sammy guida le attività di sensibilizzazione sul commercio di abiti di seconda mano ad Accra per la OR Foundation. Il suo lavoro cerca una sostenibilità ancora più ampia di quella ambientale, ma si fa voce di temi importanti e di valenza socio-politica, come il neocolonialismo, la sessualità e la fluidità di genere.

Bobby Kolade

In Uganda, un innovativo marchio di abbigliamento, Buzigahill, creato da Bobby Kolade, vuole invertire la rotta del business dei “vestiti dei bianchi morti”, rispedendo letteralmente i vestiti al mittente. Prima di farlo intercetta e raccoglie gli abiti e li lavora in maniera creativa, pronti per essere rivenduti al mercato del nord del mondo che li aveva scartati. L’anima del progetto è lo stilista Bobby Kolade, 32 anni. Il designer ugandese sta rivoluzionando l’industria mondiale dello sfruttamento dell’abbigliamento di seconda mano. Non si tratta solo di fare una scelta ecologica contro l’inquinamento tessile, ma anche di dare un contributo concreto per la valorizzazione di una filiera tessile ugandese, stretta nella morsa della globalizzazione e del libero mercato. Buzigahill collabora con artisti visivi, stilisti, venditori di mercato di seconda mano e laboratori artigianali in Uganda. Il nome stesso del marchio si rifà a quello di un quartiere dove il designer è cresciuto, una fucina di creatività, tra musica, cinema, arte, memorie architettoniche.

Greenpeace cita inoltre la figura del sudafricano Craig Jacobs, molto noto nel mondo della moda in Sudafrica. Non tutti sanno però che è anche un attivista importante, fondatore di Fundudzi by Craig Jacobs, uno dei principali brand africani di moda sostenibile.

Craig Jacobs
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