Festival di solidarietà nel deserto

di AFRICA
Fisahara
Ogni anno, nel profondo sud-ovest dell’Algeria, tra le zone più inospitali del pianeta, si tiene il FiSahara Festival. Un evento di cultura e solidarietà organizzato da centinaia di attivisti europei a favore di un popolo costretto all’esilio da 44 anni.

In cielo spuntano le prime stelle quando il grande schermo bianco montato su un tir si anima di luci e suoni. Migliaia di persone di ogni età, assiepate sui tappeti srotolati sulla sabbia, sgranano gli occhi. «È un momento magico che attendiamo con ansia ogni anno», spiega Samira, 25 anni, il volto avvolto in un leggero velo azzurro. «Certo, non è come stare seduti in una sala cinematografica – prosegue con un sorriso –. Non ci sono poltroncine e pop-corn. Ma nel posto desolato in cui viviamo quello schermo è una finestra di libertà che ci permette di evadere con la testa lontano da qui».

Siamo nel sud-ovest dell’Algeria, in pieno deserto, nei pressi della città di Tindouf: una zona arida e pietrosa, tra le più inospitali della Terra, arroventata dal sole durante il giorno e flagellata da frequenti tempeste di sabbia.

Sabbia rovente

Qui dal 2003 si tiene ogni anno – in primavera o autunno – il FiSahara Festival, una manifestazione di cultura, arte e solidarietà promossa da decine di attivisti europei, specialmente spagnoli, a favore dei rifugiati saharawi. Questi sono circa 150.000, suddivisi in quattro campi profughi – El Aaiun, Awserd, Smara e Dakhla —, costretti all’esilio da 44 anni. La loro terra di origine, il Sahara Occidentale (l’ex colonia spagnola del Río de Oro), è stata occupata militarmente nel 1975 dal Marocco.

È una regione ricca di fosfati, ferro e gas, affacciata su un mare tra i più pescosi al mondo. Esercito marocchino e Fronte Polisario (il movimento di liberazione del popolo saharawi) hanno smesso di spararsi nel 1991. Ma il cessate il fuoco non ha portato né pace né giustizia. Secondo il diritto internazionale, la popolazione dovrebbe sancire con un referendum l’indipendenza del territorio o l’annessione al Marocco, ma le due parti non si accordano sui criteri di voto. In questa situazione stagnante, il governo di Rabat ha instaurato uno Stato di polizia incarcerando, spesso senza processo, i saharawi che reclamano l’indipendenza.

I profughi dislocati nel deserto algerino vivono in tendopoli allestite dall’Onu e rifornite di aiuti umanitari. Scarseggiano acqua e luce. Nelle ore centrali della giornata si raggiungono i 50 gradi di temperatura. E ogni nuovo giorno è uguale a quello precedente. Una condizione frustrante che il FiSahara Festival cerca di alleviare.

Situazione bloccata

Lo scorso maggio il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha prorogato di altri sei mesi la missione di pace Minurso nel Sahara Occidentale. Un processo di pace che dura da quasi trent’anni (1991) e che, nonostante i recenti sforzi dell’emissario Horst Kohler, non sembra dare grossi risultati: Marocco e Polisario sono tornati a dialogare, ma le trattative non hanno fatto registrare nessun tipo di progresso, visto che entrambe le parti restano sulle loro posizioni. Da parte sua Rabat sostiene una soluzione che preveda esclusivamente «l’autonomia di una regione considerata indivisibile e parte integrante del regno». Oltre a ciò il Marocco resta irremovibile riguardo ad eventuali aperture e richieste relative alla liberazione dei prigionieri politici saharawi e all’autorizzazione di poter far entrare nei territori occupati degli osservatori indipendenti, per monitorare il rispetto dei diritti umani. Lo stesso segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, nella sua relazione sul Sahara Occidentale, aveva condannato le «restrizioni imposte dal Marocco alla libertà di movimento del suo inviato speciale» nei territori saharawi e la costruzione di fortificazioni militari da parte di Rabat considerate come «una grave violazione degli accordi di pace». Dura la reazione saharawi: «Per quanto ci riguarda», ha avvertito il segretario generale del Fronte Polisario, Brahim Ghali – «l’unica soluzione rimane quella di concedere al nostro popolo il diritto inalienabile di decidere il proprio destino in maniera democratica, con l’organizzazione di un referendum di autodeterminazione nel rispetto delle norme internazionali». Muro contro muro, insomma.

Rabbia crescente

«Due generazioni di saharawi sono cresciute in esilio e forse non vedranno mai la propria patria», sospira Helena, una volontaria spagnola che si è pagata il viaggio aereo per dare una mano all’organizzazione dell’evento. «Siamo ospitati dalla gente nelle loro tende o povere case di terra. Intrecciamo nuove amicizie, facciamo sentire la vicinanza e il sostegno alla causa saharawi. Al tempo stesso cerchiamo di spezzare la monotonia e il senso di abbandono e di solitudine che aleggia sui campi profughi».

Il programma del festival, messo a punto dall’associazione madrilena Ceas-Sahara, prevede quattro giorni di proiezioni di film, documentari e pellicole d’animazione. Ma anche seminari di sceneggiatura e regia, tavole rotonde sui diritti umani, concerti di musica tradizionale, corse sui cammelli, match di calcio e pallavolo, spettacoli teatrali e clownerie per i bambini. «Facciamo del nostro meglio per portare un po’ di sollievo tra i saharawi, ma non possiamo certo sostituirci alla politica e colmare l’inerzia della diplomazia internazionale di fronte al dramma di un popolo ignorato dai media e dai leader occidentali», fa presente María Carrión, direttrice esecutiva del festival.

Il Marocco è convinto che storicamente il Sahara Occidentale gli appartenga. È disposto a concedere ai saharawi solo un po’ di autonomia. Nei territori occupati gli indipendentisti vengono incarcerati e rischiano la pena capitale per “alto tradimento alla patria”. Nei campi profughi cresce il malcontento e serpeggia la tentazione di tornare ad abbracciare le armi. Khadiya Hamdi, ministra della Cultura saharawi, ammonisce: «I nostri giovani sono estenuati. E hanno buone ragioni per esserlo. Noi vogliamo fermamente risolvere la disputa territoriale per vie pacifiche. Ma non sappiamo fino a quando potremo contenere la frustrazione e la rabbia».

(testo di Pierre Yambuya – foto di Giulio Paletta)

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